Cogliendo le sollecitazioni degli amici inizio qui a proporre, a chi abbia del tempo da dedicare alla lettura, una vecchia storia, risalente ai primi tempi in cui mi dedicai a prove di scrittura. Il protagonista di questa avventura si chiama Peo Traverso. Chi ha già letto qualcosa di mio sa che questo cognome compare nella saga familiare attraverso la quale ho provato a narrare la storia di Genova, e tutto questo non avviene a caso.
P.G.Q


L’AFFARE SPAMPANATO-TRIPOLI

Cap 8: PAUSA ANNOIATA CON INCUBO

Nei giorni seguenti Peo si dedicò alla redazione di prospetti e moduli, allo studio di alcune recenti sentenze ed all’esame delle nuove proposte di legge che il Governo intendeva avanzare per la disciplina del lavoro precario: solita roba, insomma.

Il tempo, tornato uggioso, favoriva la sua tendenza innata alla pigrizia. Non aveva nessuna voglia di uscire di casa per sbrigare pratiche, e del resto non aveva nulla di urgente. Avrebbe dovuto andare all’INAIL per cercare notizie sull’assicurazione del Sig. Tripoli, ma giustificava la propria ignavia con l’opportunità di avere prima un quadro completo della situazione previdenziale.

La mattina di giovedì telefonò al Cherubino per sapere se il parere dell’Ufficio legale era arrivato. Malauguratamente uno scioperrro aveva rritarrdato la conscegna del documento, che rrisgiultava ancorra ferrmo all’Ufficzio protocollo. Scicurramente perrò lunedì Peo avrrebbe potuto, finalmente, consciultarre gli agognati B Org relativi ai periodi in cui il Tripoli aveva esercitato attività commerciale.

L’ulteriore proroga non scosse l’umore addormentato di Peo, ma uno sprazzo di cielo azzurro scorto dalla finestra gli fece capire che era almeno venuta l’ora di mettere il naso fuori di casa. Forse era il momento di comprare il regalo per Nina, ma per prima cosa poteva fare un salto da Pietro per un caffè.

L’atrio della Camera era addobbato da un tappeto rosso. C’era una qualche manifestazione cui avrebbero partecipato i più bei nomi dello shipping accompagnati dai più bei nomi dello shopping… Peo svicolò veloce verso gli uffici dell’anagrafe.

Pietro lo accolse con la consueta esuberanza: i disastri legislativi si assommavano all’insipienza amministrativa, le più recenti circolari ministeriali percorrevano un difficile sentiero tra l’onirico ed il ridicolo, l’organico era carente… Peo aspettò tranquillo che la buriana passasse.

-Allora, lo vuoi o no ‘sto caffè?

-Vevamente, se fai passave ancova una mezz’ovetta, potvemmo andave a mangiave insieme…

In effetti era quasi mezzogiorno. Si trattava di trovare un’occupazione per lasciar scorrere il tempo. Decise di fare due passi per Via Garibaldi, che a quell’ora –smaltito il traffico delle prime ore del mattino- tornava a somigliare ad un’area pedonalizzata, e dare un’occhiata nel negozio di profumeria. Trovò un profumo piuttosto originale, alla genziana. A Nina sarebbe piaciuto.

Ritornato sui suoi passi, strappò con la forza Pietro da un colloquio tecnico con la ragazza di uno studio di commercialista –Pietro amava i colloqui tecnici con le ragazze- e lo trascinò verso la Trattoria di Vico dei Macelli, meta delle loro puntate meridiane nei casi in cui decidevano di concedersi un lusso.

I taglierini al sugo di rana pescatrice (Taggèn a o tocco de Buddego,c’era scritto sul Ménu) erano veramente buoni. Peo, con il tovagliolo al collo per evitare di spruzzarsi di sugo, raccontò all’amico, con dovizia di particolari, il suo ultimo incontro con il cherubino e col suo capo. L’analisi ermeneutica delle parole del Dott. Arvigo li coinvolse per un buon quarto d’ora, particolarmente nella fase di paragone con strafalcioni classici come l’uso delle parole “nei” al posto di neon e “camii” al posto di camion.

Quando Pietro venne a sapere che il vero nome del cherubino era Picasso non poté trattenersi:

-Lo sapevo! E ci scommetto che di nome si chiama Vum… Vumpicasso, capisci….?

Peo sorrise alla battuta –attesa e pregustata- dell’amico, ma si premurò di spiegargli che, tutto sommato, il povero Picasso gli ispirava più simpatia che rabbia, in quanto anche lui, come tanti altri, ingranaggio cosciente ma impotente del mostro burocratico.

Il resto del pasto fu dedicato alla ricapitolazione delle tracce prelatine, latine, bizantine, longobarde e saracene nei toponimi della Valle Scrivia e adiacenze, il tutto partendo dal cognome del capo del cherubino, posto che Arvigo è appunto il nome di un paese della Val Polcevera presumibilmente derivante da Ur Vicus (Paese antico). A seguire, Casella e Casalino (luoghi di produzione di formaggio, dal latino Caseum) Vigo Morasso (Vicus Morescus, quindi insediamento saraceno), Orero (ipotesi risicatissima: corrispondente a spartiacque, sul quale era posto il limes bizantino, da Oros e Rein?), il monte Liprando (tipico nome longobardo, come tanti cognomi del genovesato, da Montaldo a Beraldo a Monaldi) e infine Busalla e Bromia queste ultime probabilmente di derivazione celtica per indicare zone fangose e ad elevata umidità.

Questa ricapitolazione, che faceva parte dei riti celebrati periodicamente dai due amici, si concluse con il bicchierino di amaro, dopo il caffè. Pietro riprese la via dell’ufficio, mentre Peo si avviò verso casa.

Mentre veniva giù per Via Luccoli (da Luculus: boschetto, avrebbe certamente fatto osservare Pietro) verso Campetto (da Campettus, avrebbe detto Peo, per sfottere l’amico), si diede da fare con il cellulare, per rintracciare Nina e proporle di festeggiare il compleanno in qualche trattoria dell’entroterra.

La voce strascicata della Nina, dal marcato accento lombardo, gli dava sempre un certo effetto di straniamento, ricordandogli i tempi dell’infanzia, quando passava le vacanze estive con certi parenti di Milano.

-Va bene Pièr, ci vediamo domenica alle 10 alla stazione Principe. Dici che ci sarà frèddo? Iu mi pòrto un magliòne in più nèl sacco. Ciau eh? Ciau ciau.

L’accordo era di andare a Campoligure col treno, poi di lì a Masone con la corriera e da lì proseguire a piedi per la Cappelletta di Masone. La meta era una trattoria dove avrebbero potuto mangiare polenta con tocco de funzi, che costituiva una buona mediazione tra la tradizione alimentare padana e quella genovese.

La pioggia lo sorprese mentre stava arrivando a Campetto. Bestemmiando affrettò il passo verso casa. Malgrado le giornate passate in casa aveva già un inizio di raffreddore, e temeva di ridursi in quello stato comatoso che si produce quando la testa si gonfia fino a scoppiare, le orecchie si otturano e gli occhi cominciano a lacrimare. Appena arrivato a casa gli conveniva prendersi una bella aspirina e fare una doccia calda. Poi libro e musica di Wagner.

Il piano venne rigorosamente rispettato. Un’ora dopo Peo era sdraiato sul divano, con una coperta addosso, e leggeva le ultime pagine del “più grande uomo scimmia del Pleistocene” ascoltando il “Preludio e morte di Isotta” dal Tristano.

Era uno dei suoi brani preferiti, con quei crescendo trascinati e spossanti che simulavano così bene la passione amorosa. Poteva ascoltarlo per ore, dimenticando anche la lettura per concentrarsi sulle note dei violini e dei corni.

Il buio della sera lo sorprese mentre ancora stava a sognare trascinato dall’impeto wagneriano. Si riscosse e accese le luci. Era ancora presto per cenare e non aveva più niente da leggere. Si sedette alla scrivania per lavoricchiare un po’, ma era distratto e propenso a lasciar vagare il pensiero senza una meta precisa.

Alla fine decise di mettere in ordine i vestiti sparsi in camera da letto e di lavare i piatti nell’acquaio: un po’ di lavoro domestico lo aiutò a tornare in sé e a passare un’oretta tranquillo. Più tardi sarebbe sceso in pizzeria. In certi momenti la solitudine gli pesava, ma aveva deciso già da tempo che non avrebbe mai voluto piegarsi alla vita di coppia soltanto per risolvere quel problema.

Quella sera si infilò a letto molto presto. Il raffreddore incipiente e l’umore nero non lo aiutavano a dormire, ma insistette caparbiamente, girandosi e rigirandosi tra le coperte, fino a quando sopravvenne il sonno. Sognò che andava alla Cappelletta con la Nina e che in trattoria veniva accolto dal cherubino, che gli spiegava come qualmente “non schi scherrrviva polenta a chi non schapeva rrriderre”. Lui provava a ridere, ma non ci riusciva, e la Nina rideva.. rideva…
[Continua]

image_printScarica il PDF