Di Antonello Rivano

Dopo l’incontro del 30 settembre alcune considerazioni sull’essere tabarchini oggi

L’incontro

Cosa significa essere tabarchini nel 2023” . Questo il tema dell’incontro avuto luogo sabato 30 settembre a Pegli all’interno del palazzo di Papa Benedetto XV, nell’ambito di “Viaggio nella tabarchinità” progetto nato nel 2021 da Pegli Live con la mia collaborazione e quella di Fulvia Rivano, con la nuova linfa, dal presente evento, del Circolo Culturale Norberto Sopranzi. A questo appuntamento, quarto in ordine di tempo, ma primo “di persona” perché gli altri hanno avuto luogo online causa pandemia, hanno collaborato: Coro Monti Liguri Genova, Circolo Culturale Norberto Sopranzi e Raixe-Spazi digitali per la cultura tabarchina. Una bella serata dove oltre agli interventi dei relatori si è esibito il Coro Monti Liguri con brani della tradizione Ligure e Tabarchine.
Cultura, storia , tradizioni, lingua, viaggi, musica, tutti temi che hanno riscontrato grande interesse nel numeroso, e attento, pubblico presente

Un momento dell’incontro di sabato 30 settembre

Durante l’incontro, a cui ha partecipato anche il Presidente del Municipio XII Ponente Guido Barbazza, si è parlato dello stato della tabarchinità oggi analizzando i vari punti i di vista. Si è inoltre progettato un viaggio, da programmare nel 2024 da Genova a Carloforte e Calasetta. Con Iris Alemano, presidente del Circolo Sopranzi, Fulvia Rivano, esperta di turismo e promozione del territorio, Remigio Scopelliti e Marzio Varaldo, intervenuti in video per Raixe, e Heidi Milan per Pegli Live, attreverso i nostri interventi, abbiamo concordato soprattutto sul fatto che la cultura tabarchina si dimostra viva anche nell’attualità dei nostri giorni e la sua epopea non si deve assolutamente considerare finita.

Considerazioni e riflessioni

Questo incontro, oltre ad aver avuto il grande merito di mettere nuovamente al centro dell’interesse la tabarchinità in modo serio e costruttivo, mi porta a fare alcune considerazioni su cosa significa essere tabarchini oggi e sulla divulgazione e promozione della tabarchinità.

Se da un lato ben pochi possono dire di essere i diretti discendenti di chi è partito da Pegli nel ‘5oo, è oggi più che mai vero che essere tabarchini è altro. Essere tabarchini è sentirsi profondamente parte di Carloforte, Calasetta, Pegli, Nueva Tabarca e la stessa Tabarca. E’ sentirsi parte di ognuno di questi luoghi geografici che fanno parte di quella comunità allargata che prende il nome di tabarchinità. Essere tabarchini oggi, ancor più che in passato, significa impegnarsi in quelle azioni che si mettono in atto per conservare e promuovere la cultura tabarchina, sia essa storia, tradizioni o lingua. Non significa essere solo ancorati al passato perché occorrono nuovi modi e nuova linfa per essere attuali e proiettati nel futuro. È indubitabile che quel passato e quella storia devono essere rispettati, sia dal punto di vista delle origini, sia per quanto riguarda la divulgazione fatta in passato. Occorre ristabilire la correttezza delle informazioni e della storia e della cultura tabarchina nel bene e nel male. Senza revisionismi storici e senza appropriarsi del lavoro e l’impegno di altri. Cosi va detto, ad esempio, senza timore di essere smentiti, che i Lomellini non furono dei benefattori, ma degli imprenditori che i tabarchini sfruttarono senza farsi troppi problemi, tanto che a Tabarca nei primi anni del settecento si trovavano concentrate 2000 persone a cui era vietato sposarsi per non dare luogo ad un ulteriore incremento demografico.  Poco più di uno scoglio con Lunghezza massima di 1.800 metri e la larghezza massima di circa 450 metri, per un’estensione di 0,3 km², su cui al limite potevano stare  mille persone.

Tabarca negli anni dei genovesi

I Lomellini che non si curarono minimamente dei Tabarchini fatti schiavi dopo l’invasione degli ottomani a Tabarca nel 1741 (né tantomeno dei carlofortini fatti schiavi del 1798 dai pirati barbareschi) tanto che Giacomo Lomellini (ultimo della sua linea dinastica nda) in una lettera al sovrano spagnolo si lamenta di quanti soldi avesse perduto ma non dimostra nessuna “pietas” o interesse per le famiglie deportate. Quei danari che avrebbero potuto abbreviare la permanenza dei tabarchini in schiavitù, se non addirittura impedire l’invasione della stessa Tabarca, furono invece spesi per fare grande la loro “cappella di famiglia”: la Basilica dell’Annunziata a Genova. Un’opera grandiosa realizzata da Giacomo Lomellini, con il tre per cento dei proventi della vendita del corallo pescato a Tabarca.

“La gretta indifferenza dei Lomellini” scrive padre Valacca, testimone dei fatti di Tabarca e facente parte dell’ordine religioso che trattò il loro riscatto, nelle sue memorie. Lomellini che, se ancora esistesse quella discendenza, dovrebbero solo chiedere scusa ai tabarchini.

La Tabarchinità oggi sta assumendo mille sfumature e la si può narrare a più livelli ma bisogna porre attenzione a non scadere in banalità e racconti lontani dalla verità storica, per fare piacere a qualcuno che tale bene collettivo vorrebbe fare suo per proprio uso e consumo.

Si può e deve guardare al passato per agire nel presente ma con onestà intellettuale.
Un esempio perfetto è la vicenda del Cristo processionale di Carloforte, detto il “Tabarchino” (vedi nostro articolo). Una storia che parte dalle lettere inviate da Tabarca nella prima metà del settecento e indirizzate alla confraternita dei SS. Nazario e Celso di Multedo, (conservate nel loro oratorio nda) e che arriva ai giorni nostri con la realizzazione del cristo di Carloforte in terra ligure, grazie a una rete fatta soprattutto di rapporti umani e amicizia.

Carloforte_Cristezzanti carlofortini e del Ponente te Genovese con il cristo “Tabarchino”

Passato e tradizione quindi, ma anche nuove tecnologie come ci insegna il progetto Raixe con il suo museo multimediale che ha sede a Calasetta (per approfondire leggi qui), nato soprattutto grazie al lavoro collettivo di associazioni e privati di tutte e cinque le comunità tabarchine.

Calasetta_Sede del museo multimediale di Raixe_Particolare

Occuparsi di tabarchinità significa dare e darsi, senza mai nulla chiedere. Parlando di tabarchinità si fa anche promozione al territorio ma questo non dovrebbe mai avere come obiettivo fini economici o scopi politici personali. Questo  è quanto ci hanno insegnato persone come Nicolo Capriata, Fiorenzo Toso, Mario Emanuelli e altri come loro che hanno lasciato vuoti incolmabili. Questo ci ha insegnato, e continua a farlo con la sua presenza e il suo esempio, Antonio Marani, cofondatore e presidente onorario del Circolo Sopranzi di Genova Pegli, questo ha fatto e continuerà a fare il Circolo sotto l’attuale guida della sua presidente la prof.ssa Iris Alemano. Questo fanno le associazioni culturali di Carloforte, Calasetta e Pegli, dando e dandosi senza nulla chiedere se non il dovuto rispetto per ciò che rappresentano. Questo continueremo a fare noi che ci occupiamo di informazione.

Quando finirà la tabarchinità? Per rispondere prendo in prestito le parole di Remigio Scopelliti, consigliere di minoranza del Comune di Calasetta, ex assessore alla cultura ed ex Sindaco dello stesso comune, facente parte di Raixe-Spazi digitali per la cultura tabarchina, collaboratore del Ponentino e grande amico del Circolo Sopranzi e di Pegli: “Sinchè esisterà anche una sola persona che si sente, e dice, di essere tabarchina, esisterà la tabarchinità“.

QUEL CHE CONTA

Quel che conta non sono I gemellaggi, o gli atti istituzionali perseguiti più con fini pubblicitari che con scopi di condivisione culturale, pur se talvolta necessari. Queste attività, spesso, rischiano di restare solo accordi vuoti, o passerelle inventate per falsi protagonisti. Quello che conta è il cuore, è ricordarsi che Tabarchinità è sinonimo di inclusione e cosmopolitismo. Quello che conta è la collaborazione costante tra associazioni e tra comunità.  Quel che conta sono i rapporti interpersonali, gli abbracci e le strette di mano, a patto che siano veri. Quel che conta è lavorare anche, e soprattutto, quando i riflettori sono spenti. Quel che conta è dare il proprio contributo anche quando si parla di eventi o progetti che non ci riguardano in prima persona.
Quel che conta, per promuovere e proteggere questo bene incommensurabile di cui siamo, forse immeritatamente, custodi, è restare umili.

Antonello Rivano – Caporedattore il PONENTINO
(Vedi informazioni sull’autore)

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