Il Contastorie

Rubrica a cura di Roberto Gerbi
Il piacere di scoprire storie curiose, divertenti, drammatiche che un appassionato di libri ha ritrovato in biblioteche polverose, vecchie riviste e, qualche volta, in internet


TITONE, OVVERO I DISASTRI DELL’IMMORTALITÀ

Eos, l’Aurora, la dea dalle dita di rosa e dalla veste di zafferano, fu condannata da Afrodite ad innamorarsi continuamente di uomini, per essere andata a letto col suo amante Ares.

Per questo motivo Eos ebbe numerosi amori, tutti infelici, per giovani solitari e bellissimi, spesso cacciatori; tra questi il selvaggio Orione, Cefalo, Ganimede. Quello più famoso e sventurato fu però quello per Titone, giovane della stirpe reale di Troia, figlio di Laomedonte e fratello di Priamo. La dea se ne innamorò, lo rapì e lo condusse con sé, nel suo palazzo in Etiopia.

Eos rapisce Titone, kylix attico (V sec. a.C.)

Nel V Inno omerico, dedicato ad Afrodite, si legge:

“Aurora dall’aureo trono rapì Titono

che era mortale di stirpe, ma bello come un dio.

E si mosse a pregare il Cronide, signore dei nuvoli foschi,

che lo rendesse immortale e di vita perenne.

E Zeus acconsentì e compì il desiderio,

ingenua, e non pensò nella mente Aurora veneranda

di chiedere la giovinezza e scacciare la sciagurata vecchiaia.

E finché egli fu nell’amabile giovinezza

godendo l’amore di Aurora dall’aureo trono, figlia di luce,

abitò presso le correnti di Oceano ai limiti del mondo.

Ma quando scendevano le prime ciocche bianche

giù dal bel capo e dalle nobili gote

allora Aurora veneranda s’allontanò dal suo letto

e lo nutriva tenendolo dentro la casa

con cibo d’ambrosia, gli dava bellissime vesti.

Ma quando incalzava ormai l’odiosa vecchiaia

e non poteva più muovere o sollevare le membra

questo le parve il migliore partito:

lo tenne rinchiuso nel talamo e serrò le fulgide imposte.

Ore di lui senza fine sussurra la voce”.

Eos e Titone

Ellanico narra che Titone fu trasformato in una rugosa cicala, dal frinire stridulo e testardo.

Roberto Calasso, nel suo saggio Il cacciatore celeste, immagina che Aurora:

“Una volta, aprì la porta della sua stanza e vide il letto vuoto. Poi, nella semioscurità, sentì di nuovo la voce di Titone. Abbassò lo sguardo – e riconobbe un insetto che si stava avvicinando lentamente al suo piede morbido: una cicala. La sollevò e la chiuse in una gabbia. Poi la depose accanto al letto dove continuava ad accogliere i suoi amanti. Ora Titone vedeva accanto a sé, come un paesaggio di massi e di tronchi, le boccette e le minuscole scatole che Eos teneva schierate per truccarsi. Ogni mattina, Eos lo nutriva amorosamente di foglie e di ambrosia. Il frinire della cicala l’accompagnava nel sonno”.

Jacques Favereau – La metamorfosi di Titone in cicala, in “Tableaux du temple des muses”

Storie simili a quella di Titone sono riassunte da Robert Frazer, in Sulle tracce di Pausania:

“Nel Satyrikon di Petronio, Trimalcione afferma: «A Cuma vidi con i miei occhi la Sibilla dentro un vaso, e quando i bambini le chiedevano: “Sibilla, che cosa desideri?”, ella rispondeva: “desidero morire”». Ampelio ci racconta di aver sentito dire che la Sibilla si trovava chiusa in una gabbia di ferro, appesa a una colonna in un antico tempio di Ercole ad Argiro. M.R. James ha osservato che nei racconti popolari germanici si trovano storie analoghe a quelle del desiderio della Sibilla. Uno di questi dice: «C’era una volta a Londra una ragazza che desiderava vivere per sempre […]. Ed ella vive ancora, e sta appesa dentro una cesta in una chiesa, e quando viene il giorno di San Giovanni, verso mezzodì, mangia una pagnottina». Un’altra storia narra di una signora che abitava a Danzica ed era così ricca e aveva tanta abbondanza di tutto quel che la vita può dare che desiderava vivere in eterno. Così, quando giunse la sua ora, non morì veramente ma parve solo morta, e ben presto la trovarono nella cavità di un pilastro della chiesa, immobile, in una posizione a metà fra seduta e in piedi. Non muoveva un muscolo, ma si vedeva bene che era viva, ed è rimasta lì fino a oggi. Il primo giorno dell’anno il sacrestano va da lei e le mette in bocca un pezzetto d’ostia, è questo e tutto ciò di cui si nutre. Quante volte si sarà già pentita del suo fatale desiderio, lei che pose questa vita effimera al di sopra delle gioie eterne del paradiso! Una terza storia racconta che una nobile damigella espresse lo stesso sciocco desiderio d’immortalità. Così la misero in una cesta e l’appesero in una chiesa, e li è ancora e non muore mai, benché molti, molti anni siano andati e venuti da quando fu messa là dentro. Ogni anno però, in un certo giorno, le danno una pagnottina ed ella mangiandola grida: «Per sempre! Per sempre! Per sempre!». E poi ripiomba nel silenzio fino allo stesso giorno dell’anno successivo, e così continuerà in eterno. Una quarta storia, raccolta presso Oldenburg nello Holstein, narra di una gaia signora che mangiava e beveva e viveva in letizia e aveva tutto ciò che si può desiderare, e voleva vivere per sempre. Per i primi cento anni tutto andò bene, ma poi cominciò a rattrappirsi e a raggrinzirsi fino a non poter più né camminare né reggersi in piedi, né mangiare, né bere. E tuttavia non poteva morire. All’inizio la nutrirono come se fosse una bambina, ma poiché continuò a diventare sempre più piccola la misero in una bottiglia di vetro e l’appesero in una chiesa. E là tuttora è appesa, nella Chiesa di Santa Maria a Lubecca. È piccola come topo ma una volta all’anno si muove”.

Al mito di Titone potrebbe essersi ispirato Jonathan Swift, che nella terza parte del suo libro più famoso, racconta di come Lemuel Gulliver giunga a Luggnagg, grande isola ad un centinaio di leghe dal Giappone. Un giorno, trovandosi in ottima compagnia, un personaggio assai distinto gli chiede se abbia mai visto uno dei loro struldbrugg o Immortali. “Mi disse che a volte, sebbene assai raramente, nasceva in una delle loro famiglie un bambino con una macchia rotonda e rossa sulla fronte, proprio in cima al sopracciglio sinistro, e tale macchia significava infallibilmente che quel nato non sarebbe mai morto”. La macchia, grande all’inizio come una monetina d’argento di tre soldi inglesi, si sarebbe allargata col tempo e avrebbe cambiato colore diventando al dodicesimo anno verde, al venticinquesimo profondamente azzurra e al quarantacinquesimo nera come il carbone e della grandezza di uno scellino; poi non sarebbe più cambiata. Queste nascite, aggiunse, erano così rare che, secondo lui, non esistevano in tutto il reame più di mille e cento struldbrugg tra maschi e femmine. Tali nascite non erano una specialità di nessuna famiglia, ma l’effetto di puro caso. Gli stessi figli di struldbrugg erano mortali al pari di tutti gli altri uomini.

Gulliver non riesce a celare il suo entusiasmo per le possibilità che si dischiudono di fronte ad un immortale ma viene presto disilluso dai suoi ospiti; la questione non è infatti di scegliere di vivere sempre nel fiore della gioventù prosperi e sani, ma in che modo si dovrebbe trascorrere una eternità di anni nelle afflizioni che la vecchiezza non manca mai di portare con sé. Gli struldbrugg, come tutti gli altri uomini, perdono i denti, i capelli e la memoria e mentre perdurano gli acciacchi non altrettanto può dirsi dei piaceri. Meno sciagurati degli altri sembrano essere quelli che rimbecilliscono e perdono completamente la memoria.

Unico sollievo viene concesso dalle benigne leggi dello Stato che, nel caso di matrimonio tra due struldbrugg, consente che questo sia sciolto appena il più giovane dei coniugi tocca l’ottantesimo anno: “Si tratta di una indulgenza suggerita dalla ragione, perché non sarebbe giusto che chi è condannato, senza ombra di colpa, a vivere perpetuamente in questo mondo, dovesse, per giunta, sentire raddoppiata la propria sciagura dal peso d’una moglie”.

Charles Edmund Brock – Gli Immortali di Luggnagg, da “I viaggi di Gulliver”

Anche nella cultura islamica sono presenti storie analoghe. Al-Tabari, il grande storico persiano della metà del IX secolo, in I profeti e i re, racconta:  

“Dio inviò ad Abramo l’angelo della morte, a cui disse: Va e prendi l’anima di Abramo, col suo permesso.

L’angelo della morte fu imbarazzato, non sapendo come fare a prendere l’anima di Abramo col consenso e col permesso di quel profeta.

Si narra che l’angelo della morte sia ricorso all’astuzia e si sia presentato ad Abramo con l’aspetto di un vecchio debole che, a causa dell’età avanzata, aveva mani tremanti e la testa molto tentennante.

Abramo, al vederlo, pensò fosse un povero bisognoso di cibo, che veniva a lui come ospite. Abramo gioì e ordinò che portassero cibo e lo ponessero di fronte al vecchio.

Quando l’angelo della morte arrivò, il profeta Abramo aveva duecent’anni.

Misero il cibo davanti all’angelo della morte; egli prese un boccone con gran fatica, le mani tremanti e la testa tentennante. Ogni volta che afferrava qualcosa, quella gli cadeva dalle mani; e quando voleva portare il cibo alla bocca, se lo sbatteva nell’occhio, nell’orecchio, nel naso, finché, dopo mille difficoltà, se lo metteva in bocca; e quello gli cadeva sulla barba.

Abramo fu molto sorpreso, stupefatto, da tutto ciò, e chiese: Vecchio, quanti anni hai?

L’angelo della morte rispose: La mia vita è di due anni più avanti di quella di Abramo: ho duecento e due anni.

Abramo chiese: Vecchio, chiunque giunga all’età di duecento e due anni diventa simile a te?

L’angelo della morte rispose: Sì.

Allora Abramo esclamò: Signore, non voglio vivere ancora tanto tempo.

Subito l’angelo della morte prese l’anima di Abramo.

Isacco lavò il corpo di Abramo e lo mise nel sepolcro affianco a quello di Sara”.

Anche nella letteratura contemporanea il tema è spesso trattato, e gli autori si dividono nel considerare l’immortalità un sogno oppure, più frequentemente, un incubo.

Simone de Beauvoir, in Tutti gli uomini sono mortali del 1946, il principe toscano Raimondo Fosca, che l’ha conquistata in modo misterioso, dopo sei secoli di vita conclude: “Si tratta di una maledizione terrificante”.

Allo stesso modo, il tribuno romano Marco Flaminio Rufo, protagonista di L’immortale, primo racconto della raccolta L’Aleph di Jorge Luis Borges, del 1949, dopo essersi immerso nel fiume la cui acqua dona l’immortalità, vaga per secoli per il mondo alla ricerca del fiume la cui acqua priva di quel dono poiché: “Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte”.

Scienziati, pseudo-scienziati, mistici e utopisti promettono di tanto in tanto di liberare l’uomo dalla morte, o almeno dai problemi legati alla vecchiaia.

Ronald Klatz, presidente della American Academy of Anti-Aging Medicine, in una conferenza a Las Vegas, ha affermato: “Vogliamo liberare l’uomo dalla tirannia della morte”.

Miller Quarles, nel 1990, ha offerto centomila dollari a qualsiasi scienziato che fosse riuscito a trovare una cura per l’invecchiamento entro 10 anni, sostenendo: “Il futuro sarà la nostra dimora, vorrei che in terra fosse come in Cielo”.

In tutti questi casi dovremmo ricordare Titone e un aforisma attribuito a Oscar Wilde che ammonisce: “Fai attenzione a ciò che desideri, potresti ottenerlo”.

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Roberto Gerbi

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