Con la rubrica “il mondo in città” si vogliono raccontare i fatti dalle varie regioni del nostro pianeta che sono rilevanti per noi genovesi, italiani. Sia che ci troviamo sotto la lanterna o altrove, come nel mio caso che scrivo da Bruxelles.
Alberto Spatola

Asia Occidentale

La coesistenza è possibile

Un nuovo alfabeto e la sua calligrafia, e un ristorante.
Ma anche degli ospedali, un movimento politico e una nuova idea d’organizzazione dello Stato.
Sono solo alcuni degli elementi che lasciano intravedere un possibile percorso di coesistenza tra le diverse comunità che abitano e si riconoscono in Israele e nella Palestina.

È necessario però premettere che gli esempi di coesistenza che sto per descrivere non possono cancellare i quasi cinquemila bambini uccisi a Gaza e dintorni nell’ultimo mese e più. Bambini uccisi da una guerra di cui non sono responsabili. I buoni esempi di coesistenza non strapperanno via le forti emozioni che hanno traumatizzato ancor di più Israele e il popolo ebreo con il pogrom del 7 Ottobre, commesso da Hamas nei kibbutz dei territori israeliani prossimi alla Striscia di Gaza. I morti non riavranno vita.
Anche se i tanti semi di coesistenza sbocceranno presto e daranno i loro frutti, ci sarà sempre una parte delle popolazioni della regione che non vorrà cogliere quei frutti, perché non vogliono nemmeno parlare di coesistenza con chi considerano il proprio oppressore o assassino. E una parte di noi, non può nemmeno dargli torto.
Eppure, è fondamentale essere consapevoli che non c’è cecità peggiore che quella del cuore; pensare che ci siano conflitti che non possano essere risolti, che non vale la pena risolvere, è il primo passo verso una cecità inguaribile.
Perciò anche nel racconto di una guerra è fondamentale prendere un momento per guardarsi intorno e non dimenticarsi di chi coltiva umanità.
La seconda premessa è che quelli che sto per offrire non sono che alcuni esempi di coesistenza. In realtà si può scrivere molto di più, ma il fatto di mettere assieme questi semi ci permette di capire come l’estremismo e l’incapacità di riconoscere l’altro, non siano la norma.

Liron Lavi Turkenich è una designer che ha cercato di rendere le due lingue semitiche di Israele e Palestina un po’ più connesse. L’arabo e l’ebraico hanno già molto in comune, sono lingue con una loro sacralità, hanno le radici nella stessa regione, ma si sono poi propagate in tutto il mondo e hanno un loro alfabeto che si scrive da destra a sinistra. Nonostante queste similitudini la lingua in terra santa è una barriera. Entrambi i popoli sanno bene come cogliere qualche significato di un’altra lingua per necessità, per trauma, sia un inferno.
Per esempio, Primo Levi, raccontò come la lingua si stesse evolvendo nei campi di concentramento, mescolando quelle degli internati con quelle degli ordini, per lo più in tedesco. E capire quegli ordini faceva la differenza tra la vita e la morte.
Gli ebrei per secoli hanno vissuto con questa ansia di integrarsi, arrivando a mescolare la loro lingua, fino quasi a perderla.
È con la nascita d’Israele che la lingua ebraica ha ritrovato una nuova forma, un rinascimento.
Per capire cosa in pratica ha fatto la designer israeliana dovete fare un piccolo esercizio: coprite con la mano la parte inferiore delle lettere delle prossime righe. Vi state probabilmente rendendo conto che riuscite a leggere e comprendere il testo benissimo lo stesso, anche senza la parte inferiore dei caratteri.
Potete togliere la mano adesso, sappiate che per l’arabo vale lo stesso esercizio, mentre per l’ebraico è la parte inferiore che rende distinguibili le lettere.
Il gioco è presto fatto, combinando la parte superiore dei caratteri dell’alfabeto arabo, e la parte inferiore delle lettere ebraiche, è possibile scrivere parole e frasi che entrambi i popoli possono leggere. Certo ci vuole qualche accorgimento, ma il risultato è che diverse autorità israeliane, dal Presidente della Repubblica in giù, hanno benedetto il progetto e provano a utilizzare questo nuovo sistema di scrittura in vari contesti. Per sostenere il progetto è possibile comprare oggetti con impresse parole in Aravrit: il nome del sistema di scrittura che si basa sulle due lingue millenarie.

In Italia sappiamo bene quanto sia forte il legame tra cibo e terra. Probabilmente in maniera ancora più drammatica lo sanno i Palestinesi.
Quando l’esercito israeliano caccia via le famiglie palestinesi dalle loro case per fare strada a nuovi coloni israeliani spesso la prima azione è tagliare i loro alberi d’ulivo, e a volte bloccano i pozzi d’acqua col cemento. Si tratta di un sradicamento reale e figurato.
Perciò mettere allo stesso tavolo cucina israeliana e palestinese ha un valore più che simbolico. Così Ben David, israeliano, e Jalil Dabit, palestinese, hanno creato nel 2015 un ristorante a Berlino che è occasione d’incontro tra la cucina Palestinese e Israeliana: Kanaan.
Kanaan è un nome sia della tradizione mussulmana che ebraica essendo un nipote di Noè, e Kanaan, nella Bibbia, indica “la Terra promessa”.
Sin dal 2015 il ristorante è rimasto aperto, ma ha chiuso, per qualche giorno, dopo il pogrom del 7 Ottobre. Ben David, il cofondatore israeliano del ristorante, a seguito di quei fatti, ha voluto fermare le attività, non trovava più il senso di tale ristorante: aveva soltanto odio e rabbia in quei giorni. Dopodiché ha ascoltato il suo amico e cofondatore Jalil Dabit, “non possiamo arrenderci al terrore” e “anche io ho provato rabbia”. Poi sono arrivati i clienti, anche loro volevano che il ristorante rimanesse aperto.
Jalil e Ben in questi ultimi giorni si sono resi conto di quanto il loro ristorante fosse un luogo importante non solo come simbolo di convivenza per il medio oriente, ma anche se non soprattutto in Germania. Il ristorante è così un’isola di pace, dove, nel cuore dell’Europa, le manifestazioni pro Palestina sono fortemente represse dalla polizia e le manifestazione pro Israele sono partecipate dalla classe politica tedesca che devono far sentire la loro vicinanza al popolo ebraico, visto il tragico passato dell’olocausto e il nazismo.

Probabilmente il luogo dove più speriamo d’essere trattati semplicemente per ciò che siamo è l’ospedale. Doniamo la nostra fiducia al personale sanitario che si sta prendendo cura di noi al di là delle nostre identità, senza pregiudizi.
Siamo stati tutti colpiti dalle immagini degli ospedali bombardati e senza risorse per operare nella Striscia di Gaza. Chirurgi hanno operato senza anestesia e alla luce delle torce dei cellulari. Abbiamo visto la foto dei neonati della Striscia che dovevano stare in incubatrice, ma l’energia era finita e li hanno messi uno a fianco all’altro perché si scaldassero. Molti non ce l’hanno fatta.
Sono storie che capitano troppe spesso in guerra, e questa guerra nella Striscia di Gaza ha colpito bambini e ospedali come mai nessuno conflitto negli ultimi anni.
Dobbiamo però ricordare come la quotidianità di molti ospedali in Israele vedano ebrei e palestinesi lavorare assieme. Anzi la coesistenza è ancor più forte, a Gerusalemme si trovano molti ospedali cristiani con dottori, infermieri, farmacisti, etc. di tutte le etnie di Israele e Palestina.
Per esempio, nell’ospedale Saint-Louis, il più anziano ospedale di Gerusalemme, operatori cristiani, arabi ed ebrei lavorano assieme in armonia in una squadra non solo fatta da israeliani e palestinesi, ma anche stranieri. Perché essere un’isola di pace in un territorio ricco di storia e tradizioni è attrattivo, ben pochi vogliono visitare un territorio pieno di divisioni e incomprensioni. Sia ben chiaro, gli operatori dell’ospedale si rendono conto che il mondo attorno a loro discrimina e divide.
Per esempio, anche nel tragitto da casa all’ospedale le differenze si sentono. I dottori e infermieri, etc. Israeliani si spostano senza problemi, anche coloro che abitano tecnicamente nei territori Palestinesi, non hanno problemi. Invece, i dipendenti arabi dell’ospedale, ogni giorno devono passare dai check points controllati dai militari Israeliani.
Serve perciò più che qualche isola di pace, serve un cambio profondo, strutturale politico, nella società d’Israele e Palestina.

Con enormi fatiche stanno lavorando a creare nuovi soluzioni di pace molti attivisti sia Palestinesi che Israeliani, soprattutto la generazione figlia degli accordi di Oslo del 1993 sta cercando di ridare forma alla soluzione dei due popoli e due Stati.
Questa nuova generazione sa bene come la sfida di un accordo di pace sia ancor più in salita che per i loro genitori. Se 30 anni fa, separare in due Stati palestinesi e israeliani, era relativamente facile, con l’eccezione di Gerusalemme e qualche altra “città mista”, oggi è invece assai più complicato. Ci sono circa due milioni di arabo-palestinesi tra i confini ufficiali di Israele e circa mezzo milione di ebrei nei confini dell’autorità palestinese.
Per questo si torna alla questione iniziale, i due popoli devono essere in grado di accettare e praticare un grado di coesistenza, non c’è alternativa. Per questo gli attivisti per la pace stanno facendo sia un lavoro dal basso che uno più strutturale.
Per esempio, il movimento “Standing Together!” (possiamo tradurre malamente con “Insieme, in piedi!”) organizza da prima della pandemia assemblee tra cittadini israeliani e palestinesi, per discutere assieme come sconfiggere assieme le disuguaglianze nel paese. Anche durante la pandemia hanno fatto molte assemblee online per discutere di come una società divisa, discriminante, in cui viene praticata l’apartheid faccia male a tutti, crei povertà e disuguaglianze economiche profonde. Inoltre, non discrimina soltanto tra ebrei e arabi, ma anche all’interno di queste comunità.
“Standing Together!” attraverso battaglie sull’ambiente, i diritti e il lavoro, unisce quindi cittadini d’Israele di ogni estrazione, ebrei e arabi, cercando di trasformare la politica Israeliana.
Ma aspettando una politica trasformata, una domanda la società israeliana e palestinese si pone: che fare il giorno dopo che le bombe si fermano e il terrorismo è in un angolo? Come dare voce e struttura a chi costruisce e cerca pace e coesistenza?
Serve una cornice entro cui lavorare, e come abbiamo visto prima la soluzione di 30 anni fa dei “due popoli, due Stati”, oggi rischia d’essere qualcosa di vuoto.
Per questo molti movimenti guardano a qualcosa di più simile a una Confederazione. Come per esempio il movimento “2states1homeland” – “Due Stati una Terra d’origine” – che si ispira, come altri, all’Unione Europea. Riconosco nell’UE un progetto di pace, che ha saputo mettere insieme paesi che si sono fatti la guerra e nel mentre garantisce libertà di movimento ai suoi cittadini.
Noi da più vicino, abbiamo probabilmente una visione meno romantica dell’Unione Europea, ma quel che importa è che anche da lontano possiamo essere un esempio.

Arriviamo così a noi, è facile, e naturale, sentirsi impotenti di fronte ai fatti di Gaza e Israele; volersi soltanto sfogare o voltarsi dall’altra parte.
Eppure anche in Europa serve un’alternativa ai due poli contrapposti, da una parte chi vuole boicottare Israele, come il movimento BDS, e dall’altra chi sta con Israele in nome dei cosiddetti “valori occidentali”, come molti nell’estrema destra europea, a partire dal Vicepresidente italiano Salvini.
Serve essere esempio e sostegno per chi lotta per la coesistenza, una coesistenza in grado di trasformare ovunque nel mondo. Ciò non è in contrapposizione con sanzionare gli eccessi, il razzismo e la violenza di troppi governi Israeliani, o essere orgogliosi della nostra cultura e dei nostri valori.
E la buona notizia che si può essere esempio e sostegno a partire da come scriviamo, come mangiamo, dalla musica che ascoltiamo, e molto altro ancora.
Insomma la pace e la coesistenza è fatta di tante piccole cose.
Anche in Israele e Palestina, in Terra Santa.

Foto © Tutti i diritti riservati a Partners for Progressive Israel

Alberto SpatolaAlberto Spatola
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