Il Contastorie

Rubrica a cura di Roberto Gerbi
Il piacere di scoprire storie curiose, divertenti, drammatiche che un appassionato di libri ha ritrovato in biblioteche polverose, vecchie riviste e, qualche volta, in internet



Palamede! Chi era costui? Un eroe, un inventore, una vittima… un dimenticato.

Per me è un personaggio doppiamente affascinante, da un lato per le sue vicende, dalle quali si potrebbe trarre uno straordinario film d’avventure, dall’altro perché non esiste un libro che racconti in maniera compiuta la sua storia: non esiste una Palameide...
(leggi articolo con capitoli I e II)

CAPITOLO III – LA GUERRA DI TROIA

Secondo Ditti di Creta, il comandante supremo degli Achei, Agamennone, era affiancato da tre comandanti della flotta, Achille, Aiace Telamonio e Fenice, e da tre comandanti dell’esercito, Ulisse, Diomede e Palamede. Non è certo un caso che gli eroi più legati al potere (Agamennone, Menelao, Odisseo, Nestore) sopravvivano alla guerra, mentre gli eroi puri (Achille, Aiace Telamonio, Palamede) muoiono tutti sotto le mura di Troia.

Il famoso catalogo delle navi dell’Iliade elenca 1.186 navi.

Palamede non condusse a Ilio né una nave, né un uomo, ma navigò su un semplice battello col fratello Eace, ritenendo di equivalere a molte braccia. Scrive Filostrato che non aveva un accompagnatore, né un servo, “né una Tecmessa o una Ifi che lo lavasse o gli stendesse il letto, ma la sua vita era semplice e senza alcun lusso. […] Una volta Achille gli disse: “Palamede, a molti tu sembri piuttosto rozzo perché non hai chi ti serva”. “E queste cosa sono?” rispose Palamede tendendo le mani. Un’altra volta poiché gli Achei gli davano delle ricchezze, la sua parte del bottino, e lo esortavano ad arricchirsi, disse: “Non prendo nulla; infatti anch’io vi esorto a essere poveri e voi non mi ubbidite”. Odisseo gli chiese, dopo che aveva contemplato gli astri: “Che cosa vedi in cielo più di noi?”, e lui rispose: “I malvagi”.

Durante la guerra di Troia, tra Palamede e Odisseo vi è una reciproca, continua provocazione. Odisseo non perdona a Palamede di averlo smascherato, lo provoca sulla sua sapienza e riceve risposte piuttosto arroganti.

I due rappresentano due diversi tipi d’intelligenza: Odisseo è l’astuzia (metis), l’intelligenza politica, la capacità di relazionarsi con gli altri, di essere consapevole delle situazioni e di approfittarne, anche mentendo, specialmente mentendo.

Palamede è l’intelligenza speculativa, che osserva il mondo cercando di comprenderlo, di modificarlo, di renderlo più vivibile per gli uomini.

“Si verificò infatti a Ilio un’eclissi di sole, ingenerando nei soldati il timore di un infausto presagio, fino a quando Palamede non ebbe chiarito l’origine del fenomeno e indicato le eventuali forme di scongiuro. Al che Odisseo: “Ciò che bisogna immolare, quali preghiere rivolgere o a chi, lo dirà Calcante: queste sono cose che riguardano la mantica. Ciò che sta in cielo e se vi sia ordine o meno negli astri lo sa Zeus, che queste cose le ha scoperte e ordinate. Tu, Palamede, diresti meno sciocchezze, se ti dedicassi di più alle cose terrene invece di cavillare sulle cose che stanno in cielo”, provocando in tal modo la piccata quanto legittima replica dell’eroe: “Se tu fossi sapiente, Odisseo, capiresti che nessuno potrebbe parlare con cognizione di causa dei fenomeni, senza conoscere la maggior parte delle cose terrene. Non dubito affatto che tu sia distante da queste idee; si dice infatti che per voi Itacesi non esistano né le stagioni né la terra”.

La risposta di Palamede a Odisseo rivela una mentalità di tipo scientifico: i fenomeni naturali, riconosciuti come tali, riavvicinano il cielo alla terra, che invece per il superstizioso (e ignorante) Odisseo restano nettamente separati. L’ adiratissimo sovrano d’Itaca non poté che allontanarsi.

Le cose non si fermarono qui: durante lo svolgersi di un’assemblea, vedendo uno stormo di gru volare a delta, secondo il loro tipico schema, Odisseo dichiarò che non Palamede, bensì le gru avevano inventato le lettere dell’alfabeto, innescando ancora una volta il giusto risentimento dell’eroe:

“Io non ho scoperto le lettere, ma fui scoperto da esse; infatti giacevano da tempo nella casa delle Muse e avevano bisogno di un uomo come me. Gli dèi portano alla luce questo tipo di cose tramite uomini saggi. Le gru non si appropriano delle lettere, ma volano seguendo un ordine: infatti si dirigono in Libia per muovere guerra contro dei piccoli uomini. Tu invece non potresti certo parlare dell’ordine, poiché non lo mantieni neppure in battaglia”.

“Avendo fatto la figura di un ragazzino in assemblea ed essendo stato superato da Palamede che era più giovane di lui, Odisseo gli aizzava contro Agamennone col pretesto che spingeva gli Achei a stare dalla parte di Achille.

Dei lupi, scendendo dal monte Ida, attaccavano i servi addetti ai bagagli e gli animali da soma intorno alle tende.

Odisseo ordinò di prendere archi e frecce e di dirigersi verso l’Ida contro i lupi.

Anche questa volta intervenne Palamede:

“Odisseo con i lupi Apollo preannuncia la peste…” quindi per proteggersi dalla peste “dieta leggera e movimento intenso”: impedì il mercato della carne, ordinò dieta a base di frutta e verdura (e i soldati accettavano questi ordini perché venivano dal saggio Palamede). Inoltre convinse Agamennone a mettere in palio premi per gare con le navi, per far fare movimento e respirare l’aria di mare più salubre.

Così la peste colpì Troia e le altre città dell’Ellesponto ma non i greci.

Vi fu una grande carestia nel campo greco. I campi erano bruciati dal sole, il bestiame moriva. I guerrieri che di solito si nutrivano di carne erano costretti a nutrirsi di pesce, cosa che non gradivano affatto se non in casi di estrema penuria di cibo, e dedicavano lunghe giornate alla pesca in mare.

Agamennone riunì i capi per chiedere se avessero soluzioni. Prese la parola Palamede e raccontò che, nel viaggio verso Troia, la nave su cui viaggiava era stata trascinata da una tempesta fino all’isola di Delo.

Anio, figlio e sacerdote di Apollo e re dell’isola, saputo dove stava dirigendosi, aveva invitato lui e i suoi compagni a fermarsi perché la guerra sarebbe durata a lungo e sarebbe terminata solo nel decimo anno. Si era offerto di ospitarli e di sostenerli in quanto aveva tre figlie:

Elaide, Spermo ed Eno, che “dedicò […] a Dioniso, pensando fosse bene avere due dèi come protettori della famiglia”. In cambio, Dioniso donò alla prima il potere di trasformare in olio tutto ciò che toccava, alla seconda di tramutare tutto in grano, alla terza in vino.

Palamede aveva rifiutato di fermarsi, perché desiderava combattere ma adesso l’intervento delle tre ragazze poteva essere utile.

Agamennone lo mandò a Delo ma Anio rifiutò di consegnare le figlie che furono rapite. L’esercito fu salvato dalla carestia. Infine, le ragazze furono trasformate in colombe da Dioniso.

Palamede era quindi sempre più popolare tra i soldati: li aveva nutriti, salvati dalla peste, aveva inventato i giochi che permettevano di non annoiarsi negli intervalli tra le battaglie.

E non basta. Poiché in seguito, vi furono altri motivi di contrasto, tra i quali uno imperdonabile agli occhi di Odisseo ossia il fatto che Achille, nel guidare con la consueta irruenza una spedizione contro le isole Eoliche e le città della costa, volle al suo fianco Palamede perché lo consigliasse sul modo di combattere. Il giovane infatti era “simile a un guardiano di belve, che ora eccita ora placa un nobile leone; e questo lo faceva senza sottrarsi al combattimento, ma anzi continuava a scagliare dardi e a evitarli, a opporre il suo scudo e a inseguire l’armata nemica”.

Mentre le città avversarie erano conquistate a una a una e la fama di Palamede saliva alle stelle, Odisseo, a Troia, formulò presso Agamennone una sfilza di accuse fasulle e tuttavia “credibili agli occhi di un ascoltatore ingenuo, e cioè che Achille aspirava al comando sui Greci e si serviva di Palamede come lenone”.

CAPITOLO IV – IL TRADIMENTO E IL PROCESSO

Odisseo, che era stato più volte superato in intelligenza da Palamede, macchinava ogni giorno inganni contro di lui. Infine, escogitò di inviare uno dei suoi soldati ad Agamennone con una falsa notizia. Doveva dirgli di avere sognato che, se si fosse ingaggiata battaglia in un certo giorno, si sarebbe ottenuta una vittoria. Agamennone, considerando il sogno veritiero, comandò che l’esercito si preparasse. Durante la notte precedente, Odisseo, da solo, interrò una gran quantità d’oro nella tenda di Palamede. Quindi, dopo avere scritto una falsa lettera di Priamo a Palamede, la consegnò a un prigioniero frigio perché la consegnasse a Palamede ma inviò lo stesso soldato che aveva finto d’aver avuto il sogno a ucciderlo poco fuori l’accampamento.

Il giorno seguente, quando l’esercito rientrò sconfitto nell’accampamento, un soldato portò ad Agamennone la lettera che era stata scritta da Odisseo e che si trovava sul corpo del frigio, in cui era scritto: “A Palamede da Priamo” e gli prometteva, se avesse tradito i greci così come avevano convenuto, tanto oro quanto Odisseo ne aveva sotterrato.

Palamede fu richiamato a Troia con un pretesto e, portato davanti ad Agamennone, negò ogni accusa. Odisseo suggerì di frugare nella sua tenda e fu trovato l’oro.

Gorgia da Lentini, vero difensore delle cause perse in quanto ha scritto anche un Elogio di Elena, scrisse la Difesa di Palamede:

“Tanto la vostra accusa quanto la mia difesa non vanno riferite alla morte, che la natura ha decretato in modo manifesto per tutti i mortali fin dalla loro nascita. Riguardano il disonore e l’onore: devo io morire secondo le leggi della natura o morire con le vostre assai turpi accuse e condanne, e ricoperto di gravissima infamia? Davanti a queste due alternative, sulla prima io ho diritto, voi avete potere di impormi la seconda con la violenza. Voi potete, volendo, condannarmi a morte con estrema facilità. Difatti voi avete poteri assoluti e disponete di forze che io non ho. […]

Dato che la causa di cui devo parlare è molto oscura, di dove devo cominciare ad argomentare? Quale questione devo trattare per prima? Su cosa fondare la mia difesa? Infatti un’accusa così infondata e priva di ogni prova, evidentemente lascia perplessi, e la parola non trova la giusta via”.

Palamede si comporta come un indagato che non ha un alibi perché non pensava di averne bisogno: “Ero a casa da solo, guardavo la televisione, se avessi saputo di aver bisogno di un alibi invitavo degli amici!”.

“Svolgerò la tesi dell’impossibilità di organizzare questo tradimento […]

Quindi chiede: “Per quale motivo mi sarebbe convenuto attuare il mio piano, se avessi potuto veramente? Nessuno vuole, senza una ragione, correre gravi rischi, né essere tanto scellerato di così grave scelleratezza. Per quale scopo dunque? Per avere il potere? E il potere su chi, su voi o sui barbari?”

Poi ricorda tutto il bene che ha fatto agli Achei, le sue invenzioni, il fatto di aver combattuto a loro fianco, di essere stato utile nei consigli di guerra.

L’ultima parte del suo discorso invita a non prendere immediatamente una decisione che sarebbe irrimediabile:

“Giudicandomi ingiustamente sareste colpevoli non solo verso di me e la mia famiglia, ma nei riguardi di voi stessi consci di aver compiuto un’azione tremenda, turpe, ingiusta, illegale, per aver mandato a morte un amico, utile a voi e alla Grecia, un greco voi Greci, senza aver potuto dimostrare ciò di cui mi si accusa e senza avermi trovato fondatamente colpevole”.

Si difende bene ma è chiara l’opposizione tra la parola e i rapporti di potere: il “vero” potere non scende mai a patti.

Ancora più interessante, nella sua ambiguità, è la voce che Alcidamante di Elea, un sofista allievo di Gorgia, presta a Odisseo.

L’Enciclopedia Treccani scrive che ad Alcidamante di Elea “è attribuita (anche se generalmente è giudicata non autentica) un’opera di valore letterario minimo”, intitolata Odisseo o Il discorso di Odisseo contro il tradimento di Palamede”.

L’interesse letterario sarà minimo ma vi si trova una certa bellezza, un’ambiguità, forse un’astuzia…

Alcidamante è incapace di sostenere l’accusa o è in realtà convinto dell’innocenza di Palamede? Il tradimento è descritto in questo modo da Odisseo:

“Sapete bene anche voi in quale pericolo ci trovammo, quando alcuni di noi avevano trovato scampo alle navi, altri nelle fortificazioni, e i nemici incombevano già sul campo; non si vedeva via d’uscita, né come sì sarebbe conclusa quell’emergenza. Ed eccovi cosa succede: ci trovavamo presso le porte, schierati fianco a fianco io e Diomede; vicini erano Palamede e Polipoite. Quando venimmo insieme allo scontro, un arciere nemico usci dalla schiera e mirò verso di lui, ma lo mancò e colpi nei miei pressi. Palamede scagliò il giavellotto contro dì lui, che lo raccolse e rientrò nelle fortificazioni. Raccolta la freccia, la diedi a Euribate, perché la passasse a Teucro e questi la usasse. In una breve pausa del combattimento questi mi mostrò che la freccia aveva una scritta sotto le piume. Colpito, mandai a chiamare Stenelo e Diomede per fargli vedere cosa c’era sulla freccia. Questa la scritta: “Alessandro a Palamede. Quanto hai concordato con Telefo, sarà tutto tuo; in più mio padre ti offre in moglie Cassandra, come avevi chiesto nel tuo messaggio. Ma sbrigati ad eseguire il tuo compito”. Questo era scritto; fatevi avanti e testimoniatene voi, che raccoglieste il dardo.

Vi avrei mostrato anche la freccia, così come stava; purtroppo, nel tumulto, Teucro, per sbaglio, la lanciò”.

Come in un “legal thriller”, abbiamo:

  • la freccia, unica prova del tradimento, scagliata via “per sbaglio”;
  • i testimoni, poco attendibili in quanto tutti di parte: Diomede è il più fidato amico di Odisseo;
  • un messaggio, lunghissimo e con tanto di mittente e destinatario.

Poi non si parla più di prove; Odisseo divaga e calunnia:

“Costui ha un padre, povero, di nome Nauplio, di mestiere pescatore; costui soppresse moltissimi Greci e rapinò dalle navi una quantità di ricchezze, commise ogni sorta di malvagità contro i naviganti, rotto com’era a tutte le perfidie.

Annunciava, anzi, che Cinira avrebbe mandato cento navi; ma lo vedete anche voi, da quello non ce n’è venuta nemmeno una! Cosicché anche per questo mi pare che sarebbe giusto punirlo con la morte, se mai è giusto punire l’astuto, quando si scopra che ha ordito le più vergognose macchinazioni contro gli amici”.

Infine, quando non si ha altro dire, sono rivolte a Palamede le stesse accuse che saranno rivolte a Socrate, condannato a morte per empietà e per aver corrotto i giovani.

Odisseo afferma che Palamede “inganna e seduce i giovani”, attribuendosi falsamente invenzioni fatte da altri, tutte “più antiche di lui”, e termina la sua arringa dicendo:

“Vi chiedo pertanto di decidere la sua sorte dopo attenta riflessione in comune e di non lasciarlo andare, ora che lo tenete saldamente; se per compassione o per l’efficacia delle sue parole lo proscioglierete, si avrà una vistosa violazione del diritto nel nostro esercito: infatti, se tutti sapranno che Palamede, pur manifesto reo di tante colpe, non ha pagato il fio, ognuno proverà a commettere ingiustizia. Perciò, se avete buon senso, votate secondo il vostro utile e, punendo costui, darete un esempio a tutti gli altri”.

Palamede fu condannato dai suoi compagni. Gli vennero legate le mani e fu “lapidato dai Peloponnesiaci e dagli Itacesi” insieme ai loro capi, Odisseo e Agamennone. Come ha scritto Roberto Calasso, nelle Nozze di Cadmo e Armonia, “ciascuno dei giocatori di dadi gettò la sua pietra su di lui”.

Palamede non supplicò, non disse nulla di compassionevole né si lamentò; disse soltanto: “Ho pietà di te, verità, tu che sei morta prima di me”.

Crudele fu anche l’editto contro di lui: “che non fosse sepolto né inumato, e chi l’avesse raccolto e seppellito fosse condannato a morte. Mentre Agamennone promulgava questo editto, il grande Aiace si gettò sul cadavere e versò su di lui molte lacrime, quindi lo sollevò e si aprì un varco tra la folla con la spada sguainata e pronta. Dopo averlo seppellito, nonostante il divieto, Aiace non si univa più alla comunità dei Greci, non prendeva più parte alle decisioni e alle proposte, non usciva più in battaglia”.

A sua volta il nobile figlio di Peleo, di ritorno dal Chersonese, si adirava per il turpe trattamento riservato a Palamede e voleva difenderlo in assemblea, attirandosi però gli insulti di Agamennone e un’accusa di tradimento da parte di Odisseo, al punto che si astenne dal combattimento fino alla morte di Patroclo.

La presenza e l’uccisione di Palamede fanno rileggere l’Iliade in una prospettiva totalmente nuova. Il processo si svolge prima degli avvenimenti narrati nel poema: la vera causa dell’ira funesta non è una faccenda di donne ma l’assassinio di Palamede.

Come scrisse Euripide: “Abbiamo ucciso l’usignolo delle muse colui che non faceva male a nessuno”.

Sull’infame sentenza e, per contrasto, sui giudici equi dell’Ade, valgono le parole che Platone attribuì a Socrate: “Quanto a me, in particolare, quale meraviglioso soggiorno vi sarebbe colà, se mi imbattessi in Palamede e Aiace Telamonio e in chiunque altro degli antichi, morto per ingiusta sentenza!”.

CAPITOLO V – IL SILENZIO

Il destino di Palamede è fatto di silenzio, frammenti, sussurri.

La sua leggenda gode di rilevante fama specie nel dramma attico di V secolo a.C.: i tre tragici maggiori (Eschilo, Sofocle ed Euripide) e Astidamante il giovane scrivono un Palamede o opere, come Il Nauplio che naviga e II Nauplio che accende i fuochi di Sofocle, dedicate all’ultima parte del mito, quella della vendetta che il padre fa scontare agli Achei di ritorno da Troia. Il caso ha fatto sì che ci siano giunti solo pochi frammenti di queste opere.

Per quanto riguarda il silenzio di Omero, così narra Filostrato, nell’Eroico:

“Vi fu… un poeta, Omero… conosceva i nomi e raccolse notizie delle imprese dalle città che ciascuno degli eroi guidava. Girò per la Grecia quando il tempo trascorso dai fatti di Troia non poteva ancora togliere il ricordo di quelle vicende. Le apprese anche in altro modo, divino e che va oltre la sapienza.

Dicono che una volta Omero si imbarcò per Itaca avendo udito che l’anima di Odisseo viveva ancora, e la evocò dal regno dei morti. Quando Odisseo fu risalito sulla terra Omero gli chiese di raccontare ciò che era successo a Troia, e quello rispose di sapere e di ricordare ogni cosa, ma non avrebbe detto nulla di ciò che sapeva, se non ne avesse avuto come ricompensa da parte di Omero lodi nel poema e la celebrazione della sua saggezza e del suo valore. Omero acconsentì e gli assicurò che, per quanto poteva, sarebbe stato benevolo nei suoi confronti, e allora Odisseo narrò come si erano svolti i fatti secondo verità. Le anime infatti non mentono assolutamente davanti al sangue e alle fosse. Mentre Omero già si allontanava Odisseo si mise a gridare dicendo: “Palamede pretende giustizia da me per la sua morte ed io so di aver agito ingiustamente e di certo ne pagherò il fio; infatti coloro che amministrano la giustizia qui sono severi, Omero, e il supplizio è vicino. Ma se gli uomini sulla terra crederanno che io non abbia commesso questi crimini contro Palamede, la pena qui mi sarà meno dura. Non condurre Palamede a Troia, non farne un guerriero, non dire che fu un sapiente; altri poeti diranno queste cose, ma non sembreranno credibili, se tu le avrai tralasciate”. Questo, straniero, è stato l’incontro tra Omero e Odisseo e così Omero apprese la verità, ma molte cose abbellì a vantaggio dell’argomento che trattava”.

A seguito di questo accordo il vate cieco “tolse da ogni suo racconto il divino Palamede… attribuì al solo Achille le imprese più gloriose in modo che, quando Achille combatteva, gli altri Achei passassero in secondo piano”.

D’altronde, “se avesse ricordato Palamede non avrebbe potuto nascondere a nessuno l’affronto che l’eroe patì da parte di Odisseo”. Da questo, secondo Filostrato, scaturì la tremenda furia di Poseidone contro il figlio di Laerte, “a causa della quale non rimase intatta neppure una nave e morirono tutti gli uomini dell’equipaggio”. Un’ira nata non “per vendicare Polifemo (Odisseo infatti non giunse in tali sedi, né, se anche il Ciclope fosse stato suo figlio, Poseidone si sarebbe adirato per un figlio del genere che divorava gli uomini alla stregua di un leone selvaggio): fu a causa di suo nipote Palamede che egli rese il mare infido a Odisseo. Quando sfuggì a quei tormenti lo uccise proprio a Itaca scagliando contro di lui il tridente”. D’altra parte, “anche l’ira di Achille non ricadde sugli Achei per la figlia di Brise, ma per Palamede”.

Filostrato imputa al cantore cieco un’ulteriore responsabilità: cioè che, “assuntosi l’impegno di raccontare la vicenda di Troia, interrompe il racconto dopo la morte di Ettore, come attratto da un’altra storia che dedica a Odisseo, e nei canti di Demodoco e Femio narra la caduta di Troia e il cavallo di Epeo e di Atena e descrive queste vicende troncando il racconto e offrendole alle parole di Odisseo”. E sempre a causa di Odisseo, “Omero inventa la razza dei Ciclopi, che non furono mai in alcun luogo della terra, e i Lestrigoni, che nessuno sa dove si trovassero, e ha reso la dea Circe un’esperta di veleni, e le altre dee innamorate di lui, sebbene la vecchiaia lo avesse ormai raggiunto, anche quando presso Nausicaa gli crebbero chiome di Zacinto. Né la fanciulla era innamorata della sua celebrata sapienza; infatti cosa disse o fece di saggio presso Nausicaa?”.

Esistono differenti versioni circa le ragioni del silenzio di Omero. Il lessico Suda, una sorta di enciclopedia bizantina del X secolo, racconta che Palamede fu anche un grande poeta ma che le sue opere furono distrutte dagli Atridi per gelosia. Una leggenda attribuiva tale misfatto allo stesso Omero, per gelosia professionale, e aggiungeva che proprio questa era la ragione per cui non menzionava mai Palamede nell’Iliade.

La congiura del silenzio pare continuare e, in molte opere attuali sulla guerra di Troia e su Odisseo, il nome di Palamede non viene mai citato.

CAPITOLO V – LA VENDETTA DI NAUPLIO

Eace, fratello di Palamede, anch’egli presente a Troia, volle avvertire il padre dell’infame accaduto. Non sapendo come fare, decise di usare le pale dei remi come materiale scrittorio. Egli incise su molti remi la tragica notizia e li gettò in mare, come messaggi in bottiglia, sperando che Nauplio, il navigatore per antonomasia, s’imbattesse in almeno una di queste tavolette galleggianti.

Il ritrovamento dei remi fu forse propiziato da Poseidone o da qualche altra divinità, unico minimo intervento divino in una storia altrimenti tutta umana.

Appresa la morte del figlio, Nauplio giunse sollecitamente a Troia, minacciando Agamennone di vendicarsi.

Nauplio non ottenne alcuna soddisfazione per l’ingiusta morte del figlio, quindi, per vendicarlo, “costeggiando le coste dell’Ellade indusse le mogli dei greci a commettere adulterio”. Insinuò, in donne che attendevano i loro mariti ormai da dieci anni, il dubbio circa la loro condotta; affermò che questi spendessero buona parte del tempo in compagnia di concubine locali e che intendessero poi portarle in Grecia e prenderle come compagne ufficiali.

Queste notizie, del resto non sempre prive di verità, causarono il tradimento di Clitennestra con Egisto, da cui derivò l’uccisione di Agamennone e della sventurata Cassandra, dopo il ritorno del re a Micene.

Ad Argo, Egialea, ispirata da Afrodite, tradì Diomede con Comete, il giovane figlio di Stenelo, e gli tese molti agguati. Anche in questo caso, pare che le insinuazioni di Nauplio abbiano avuto non poca influenza nell’indurre la donna al tradimento. Diomede fu costretto ad abbandonare la città, imbarcandosi per l’Italia.

Sull’isola di Creta Meda tradì Idomeneo con Leuco. Questi poi uccise Meda e la figlia e si impadronì del regno. Quando Idomeneo ritornò da Troia, lo costringe a fuggire.

Nauplio tentò di fare la stessa cosa con Penelope a Itaca: incitò i Proci a invadere la reggia di Odisseo per corteggiare Penelope.

Fu sempre Nauplio a far pervenire ad Anticlea, madre di Odisseo, la falsa notizia della morte del figlio in combattimento, che portò la donna a suicidarsi, impiccandosi.

Igino racconta che, quando i Danai stavano tornando in patria, dopo la presa di Troia e la divisione del bottino, fecero naufragio sulle scogliere di Cafareo, nel sud dell’isola di Eubea, a causa di una tempesta e dei venti avversi mandati dagli dèi. Questi erano adirati perché i Greci avevano saccheggiato i templi troiani e perché Aiace di Locri aveva strappato Cassandra dalla statua di Pallade. Durante la tempesta, Aiace di Locri fu colpito da un fulmine scagliato da Atena e fu sbattuto dai flutti contro le rocce, che da allora sono dette rocce di Aiace.

Nella notte, Nauplio udì i Greci che imploravano l’aiuto degli dèi e capì che era giunto il momento di vendicare le offese patite da suo figlio. “Così, come se stesse cercando di aiutarli, portò una fiaccola accesa proprio nel punto più pericoloso, dove gli scogli erano più aguzzi. Quelli, credendo che lo facesse per generosità e indicasse un porto sicuro, diressero le navi verso quel punto; di conseguenza molte navi furono distrutte, moltissimi soldati morirono nella tempesta insieme ai loro comandanti e le loro membra e le loro viscere furono dilaniate dalle rocce. Coloro che riuscirono a nuotare fino a terra vennero uccisi da Nauplio. Ma il vento spinse Odisseo presso Marone e portò Menelao in Egitto, mentre Agamennone arrivò in patria con Cassandra”.

PRIMO FINALE

Filostrato racconta che Apollonio di Tiana, nel suo viaggio in India, trovò un giovane che era la reincarnazione di Palamede:

“Questo giovane è stato Palamede, l’eroe della guerra troiana, e i suoi peggiori nemici sono Odisseo e Omero: il primo perché tessé contro di lui l’inganno per cui fu lapidato, il secondo perché non lo degnò neppure di un verso. E dal momento che la sua sapienza non lo soccorse né ottenne lode da Omero, grazie al quale molti divennero famosi pur non avendo merito, e soggiacque a Odisseo senza avergli fatto alcun torto, è ostile alla filosofia e lamenta la sua sventura. Ed è costui Palamede, tanto che scrive pur senza avere appreso l’alfabeto”.

SECONDO FINALE

Si narra che Nauplio, il cui scopo principale era la morte di Odisseo, il responsabile dell’inganno contro Palamede, si uccise dopo aver saputo che il re di Itaca era tornato in patria salvo.

Secondo un’altra versione fu lo stesso Zeus che, per punirlo della vendetta troppo cruenta, gli fece fare una fine analoga a quella che aveva procurato ai suoi nemici, facendone schiantare la nave contro gli scogli.

Entrambe queste soluzioni mi sembrano poco credibili. Una persona che odia in maniera così forte non si suicida finché la sua vendetta non sia completamente conclusa e, allo stesso modo, è difficile immaginare che un figlio del dio del mare possa morire annegato. Io me lo immagino salvarsi, giungere a una spiaggia, come Odisseo alla terra dei Feaci, e riprendere a vagare per il Mediterraneo, meditando inganni, cercando per sempre vendetta.

Leggi anche PALAMEDE, L’EROE DIMENTICATO (1)

Roberto Gerbi

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