FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi


Dopo Edoardo Firpo (v. articolo relativo), un altro scrittore dialettale, poeta e drammaturgo: Niccolò Bacigalupo. Ai più il nome ricorda solo  una via elegante che si diparte dalla Villetta Di Negro, presso piazza Corvetto, incrociandosi con quella intitolata a Martin Piaggio, altro poeta che onorò la lingua ligure; su entrambe, dall’alto di una svettante colonna, vigila lo sguardo pensoso di Giuseppe Mazzini.

Come già detto altrove, spesso gli illustri personaggi ritenuti meritevoli di una targa stradale vengono dimenticati in quanto tali e di loro resta solo un vuoto nome, un’indicazione per orientarsi in città. Eppure la commedia Manezzi pe majâ unn-a figgia a Genova la conoscono tutti: certo Govi, sì, ma l’autore è Niccolò Bacigalupo, di questa e di altre. Vediamo allora di conoscerlo meglio.

Nasce a Genova nel 1837, studia presso il collegio degli Scolopi a Savona con ottimi risultati; profondo conoscitore della letteratura greca e latina, parla  e scrive correntemente in tedesco, inglese,  francese e spagnolo.

A diciotto anni viene assunto dal Comune di Genova e nel 1878 assume la carica di tesoriere;  un incarico importante: si occupa di palanche, ma coltiva anche una vena letteraria e drammaturgica, di stile satirico-umoristico. Recita come filodrammatico, impersonando la figura del Marcheize Tiritofolo Gattilusio, collabora alla fondazione della Soc. Ginnastica “C. Colombo” (1864);   fonda e organizza  riviste, frequenta attivamente salotti  conquistandosi una notevole fama negli ambienti letterari della fine del XIX secolo, e non manca di fare beneficenza attingendo ai suoi proventi di scrittore.

Deve la sua fama all’opera in versi scritta in dialetto pubblicata in parte sul Lunario del Sig. Regina che conduce in continuità a Martin Piaggio; e in parte sulla rivista Il successo di cui era stato cofondatore. Le sue commedie in genovese conoscono grande popolarità grazie alle rappresentazioni  della Compagnia Gilberto Govi- Rina Gaioni.

 Muore a Genova il 7 giugno 1904.

Edoardo Firpo, con la sua poetica malinconica e sommessa incarna la parte schiva e appartata dell’anima ligure; Niccolò Bacigalupo, al contrario, rappresenta quella ironica, disincantata, un po’ cinica. Il primo, nonostante l’uso di una lingua a corto raggio, tratta sentimenti che possono considerarsi universali, il secondo tratteggia soprattutto bozzetti burleschi e macchiettistici.

Gran parte della sua opera, quasi esclusivamente dialettale, ha perciò contenuto satirico-parodistico, come il poemetto  MontecatiniEneide Ricordi di un reduce troiano in dialetto genovese, Loritto o pappagallo de monaghe, liberamente ispirato dal Vert-Vert di Gresset; O canto da rumenta; Prose rimae, scrite pe ûso domestico;  le oraziane Odi ed epodi tradute in zeneize.

Citiamo dall’Enciclopedia Treccani online:

[...] l'opera del B. comprende poesie liriche e scherzose, poemetti umoristici, vivaci commedie e traduzioni che sono in realtà arguti e personali travestimenti o parodie di testi classici. Attento osservatore della realtà genovese del tempo, il B. è portato alla frecciata pungente, allo spunto comico, al quadretto colorito, allo scorcio vivace e macchiettistico. Questa sua tendenza giunge spesso a toni salaci o scopertamente volgari [...]

Alcuni critici sono piuttosto severi nel considerare la qualità artistica  della sua opera. Secondo costoro, Bacigalupo  “depurando” la lingua genovese e italianizzandola nella grafia e nella sintassi, l’avrebbe subordinata alla lingua nazionale  rendendola  adatta  solo ad espressioni di basso livello culturale. Queste accuse, forse eccessive, da parte dei puristi, non sono tuttavia del tutto infondate come vedremo. Il suo manifesto sull’uso dialetto lo troviamo  nel seguente componimento

A poexia dialettale

E fra i moderni lirici, pe no çittâ de quelli

Che han i rognoin ciû solidi, ö Meli, ö Porta, ö Belli,

Han forse meno merito che çerti cappilista

De nostre Mûse e apostoli da Scheua Naturalista?

E forse ö so vernacolo ö nö l’è vea poexia

Perchè ö l’è pronto e façile e sensa astrûseria?

Ma dunque nu caccemolo zu troppo, sto dialetto,

Co-a scusa che ö l’è ignobile e d’abito negletto,

Invece ammiae de rendilo ciû nobile, e pulito,

De scorie troppo rûvide, çerchae d’ingentililo,

Scegliendove i vocaboli, a forma, e l’andamento,

Secondo porta l’indole do singolo argomento,

E no fae sfoggio inûtile de termini volgari,

Cedendo a-o lenocinio de fâve popolari,

De frasi a senso doppio, scurrili accanaggiae,

Sensa raxion plauxibile, senza necessitae!

[…]

Ammiae se l’è poscibile d’ûsa di man in man,

De frasi e di vocaboli che saccian d’italian;

O nö sâ ö veo vernacolo do Cian de Sant’Andria,

Ma quello che ö se solita parla dä borghexia,

A quae, pë consuetûdini da vitta e l’istrûzion,

A l’ha, sens’ëse nobile, ûn pö d’educazion.

(E fra i moderni lirici, per non citare di quelli / che hanno i testicoli più solidi, il Meli, il Porta, il Belli, / hanno forse meno merito di certi capilista / delle nostre Muse e apostoli della Scuola Naturalista? / E forse il loro vernacolo non è vera poesia / perché è pronto e facile e senza astruseria? / Ma dunque non buttiamolo troppo giù, questo dialetto, / con la scusa che è ignobile e di abito negletto, / invece guardate di renderlo più nobile, e pulito, / delle scorie troppo rudi, cercate di ingentilirlo, / scegliendovi i vocaboli, la forma e l’andamento, / secondo quanto richiede il tono del singolo argomento, / e non fate sfoggio inutile di termini volgari, / cedendo al lenocinio di rendervi popolari, / di frasi a doppio senso, scurrili accanagliate, / senza ragione plausibile, senza necessità! / […] / guardate se è possibile usare di tanto in tanto, / frasi e vocaboli che sappiano di italiano; / non sarà il vero vernacolo del Piano di Sant’Andrea, / ma quello che di solito parla la borghesia, / la quale, per consuetudini di vita e l’istruzione, / ha, senza essere nobile, un po’ d’educazione.)

Non possiamo a questo punto non notare l’incoerenza: dire di Meli, Porta o Belli Che han i rognoin ciû solidi, ovvero che “hanno le palle”, come diremmo oggi, non sembra proprio un’espressione raffinata! Non solo, doppi sensi e volgarità nei suoi versi abbondano, ma fanno parte del registro dialettale, non sono mai fini a se stessi. La parlata volgare, oscena, blasfema, è caratteristica di tutti i dialetti, che nascono appunto dal volgo, dal popolo;  come si è visto negli  articoli relativi alle Parolle do gatto (3 e 4)  nasce dalla necessità prorompente di dare sfogo a forti emozioni:  pulsioni legate alle fonti profonde e universali del vivere. D’altra parte come vedremo il nostro non si tira indietro di fronte a doppi sensi e ad espressioni scurrili: come dire predica bene, ma razzola male.

 Anche l’italianizzazione ai fini di una maggior comprensione non è giustificata: impoverisce il dialetto, lo priva di espressività, lo rende artificioso.

Infine una annotazione sulla grafia. Questo è davvero il punto debole della scrittura di Bacigalupo, suoni uguali sono spesso resi graficamente in modo diverso, ciò confonde il lettore e ostacola la comprensione del testo.

 Eppure, nonostante tutto, leggere i suoi versi è un piacere straordinario, si ride ad ogni “a capo” e si riflette anche, perché la sua bonaria e fresca ironia si fa beffe degli umani, piccoli vizi da cui nessuno di noi è immune, ma lo fa con indulgenza senza ipocriti  moralismi.

Cominciamo dunque dal  poemetto O pappagallo de moneghe. La storia, come da titolo,  si svolge in un monastero

 […]

 Gh’ëa a Zena, ûn Monestë ricco, avvoxôu,

 Fra quelli de tanti Ordini che gh’ëa,

 Dove e Moneghe tûtte, ëan reclûtæ

 In te primme famiggie da çittæ.

Ma fra  queste moneghette serpeggia una certa inquietudine:

Pe quanto se-a passassan in rosäi,

 A fâ torte, bomboin d’ogni savô,

 A inquaddrâ di Gëxù, di Reliquâi,

 Malgraddo sti da fæ, sti piggia e pösa,

 Se sentivan mancâ sempre ûnn-a cösa.

Sentono la mancanza di un oggetto sul quale riversare il proprio affetto.

Ö bezêugno d’espande a so affezion

 Se non âtro in sce ûn’oca, ûnn-a gallinn-a,

 D’avei quarcösa, insomma da caezà

 Pe ö bezêugno che ognun sente d’amâ

 Sci, ma a gallinn-a, l’oca, ö gatto, ö can,

 N’ëan manco, comme diëmo, ö so ideale,

 Voeivan quarcösa da tegnise in man,

 Che ö piggiasse de frasche e ö e poese fâle;

 E indecise in sce quësto, ciù che quello,

 Avieivan dexideôu tutte ûn öxello!

E qui già si capisce dove si andrà a parare. La richiesta dopo una serie di allusioni in confessionale viene portata al  Padre Spirituale che naturalmente equivoca e comincia ad agitarsi.  Tutto il poemetto è giocato sul doppio senso, ma in maniera lieve e garbata e, soprattutto, con effetti comici irresistibili. Né da meno è la caratterizzazione dei personaggi.

Sto Paddre ö l’ëa ûn canonego do Dommo,

 Ben pasciûo, riondo, fresco e colorïo,

 Bonn-a pasta se voemmo, e galantommo,

 Ma in fondo ûn azenun cäsôu e vestïo,

Che però ö l’ostentava pe politica,

 Ûnn-a coscienza rigorosa e stitica.

Si può ben comprendere perché le povere ragazze recluse – perché giovani e prigioniere erano in quel luogo “santo”-  sentissero il bisogno di riversare il loro affetto su qualcosa di vivo.

 Perchè avendo imparôu per esperiensa

 Che pe vive co-e donne, e comandâ,

 Bezêugnava dêuviâ da prepotensa,

 No lasciale riflette e raxonnâ;

 Ö gh’impiva ö çervello de lûçïe,

 A cosciensa de scrupoli e de puïe.

Dopo una esilarante discussione con la madre superiora, l’ottuso, e malfidato, Padre Spirituale capisce che proprio di un uccello vero, con piume e becco si tratta.

— «(Oh per bacco! a sæ troppo madornale…

 «E m’aveivo creddûo che se trattesse…)

 «Ma ö l’é proprio ûn oxello, ûn animale?

 — «E de cöse scià voeiva che parlesse?

 — «E per die! scià me fæ di de giastemme,

 «Scià parlan sempre comme tante scemme!

Non è possibile concedere un uccello a testa alle moneghette: da genovese prudente fa notare che:

«Gh’andiä ûn monte de miggio e de scaggêua,

 «Lasciando, che se cantan tûtti assemme

 «Atro che meditâ, scià vegnian scemme.

L’ideale sarebbe:

«[…]  ûn öxello

 «Che ö no segge piccin nè delicôu,

 «No diö proprio da fâsene ö bordello,

 «Ma che ö fasse ûn servixo continuôu…

 «Se sa ben, scià son tante, e scià vorrian

 «Tûtte quante tegniselo ûn pö in man.

La soluzione è a portata di mano:

«E pe questo me pä che a Provvidensa

 «A ghe l’agge pe lö misso in conserva;

 «Mi ghe n’ho ûn bello, e posso fäne sensa,

 «Perchè da-ö giorno che m’é morta a serva

 «Ö non é de demôa ciù pe nisciûn,

 «E ö patisce ûn pö troppo de zazzûn.

«Perchè in casa da mi, povëo Loritto,

 Ö rischieiva de moi dall’appetitto. —

 «Ö se ciamma Loritto? — Çertamente!

 «E ö l’é ûn bello campion de pappagallo,

 «Bello, grosso, amoroso, intelligente,

 «Che ö parla comme noi. — Comme me sciallo!

Loritto fa il suo ingresso trionfale, con effetti comici irresistibili, nel monastero portando lo scompiglio fra le monachelle, ma qui mi fermo per non spoilerare perché il libro è disponibile per l’acquisto in rete, nel formato cartaceo e in quello digitale, per chi fosse interessato.

Un lavoro più impegnativo per argomento e volume è Eneide. Ricordi di un reduce troiano in dialetto genovese. Si tratta di una gustosa parodia dell’eroica impresa di Enea che, fuggito da Troia in fiamme, approda sul lido laziale dove si compirà il destino della fondazione di Roma. La narrazione segue fedelmente, sia pure in termini ridotti, quella virgiliana, ma l’effetto straniante, di grande comicità, è dato dal registro popolare, ironico della materia epica che decade così al livello della quotidianità  facendo degli eroi dei comuni mortali, goffi in qualche caso e grotteschi. E tanto per rincarare la dose, l’autore infila qua e là degli anacronismi, quali le armi da fuoco per esempio, o personaggi cittadini, della sua città, ridicoli ad immaginarli entro le mura di Troia. Ma sfogliamo qualche pagina.

Enea  al cospetto della regina Didone racconta la sua fuga, ecco come descrive il cavallo di legno.

Sti bonægia de greci inveninæ

 De no pûeinelo mette ciû derë,

Doppo avei caccioû via sangue e dinæ

 Senza costrûto e mette avanti ûn pë,

 Comme tûtti i batösi e i mandilæ

 Han misso man ai færi dö mestë,

 All’inganno, ai manezzi, all’impostûa:

 Arti che riescian dacché ö mondo ö dûa!

Sciâ s’immagine ûn pô, che han misso man

 Con di travi e de tôe ben cömentæ,

 A ûn cavallo che ö l’ëa scinn-a doman,

 Äto comme i balûardi da çittæ;

 Poi finzendo, i ruffien, de fûtte ö can,

 Han piggioû sporta e færi e son filæ,

 Ma lasciando i ciû bûlli e i ciû batôsi

 Dentro da pansa dö cavallo ascösi.

La città è messa a ferro e a fuoco, distruzione e morte, Enea col padre Anchise, il figlio Ascanio (detto Julo dai latini), insieme ad un gruppo di fedeli compagni sopravvissuti decide di fuggire. Questa la sua esortazione:

Ûnn-a folla de gente radûnâ

 Pronta a dividde e nostre avverscitæ

 Seguitandone in tæra comme in mâ:

 Troia a l’ëa ûn fôu… nö gh’ëa da fâ ûn bellin,

 Dunque, ho dîto, mettemöse in cammin.

Si potrebbe andare avanti, ma il poemetto, che si trova facilmente online, è lungo, ed è ora di presentare un’altra opera dalla quale non possiamo prescindere: O canto da rumenta, un titolo che è tutto un programma.

Questa composizione si prefigge un intento moralistico: ridimensionare la presunta e sedicente elevatezza dell’uomo, la sua nobiltà spirituale;  lo fa con la consueta  ironia, ma con una certa amarezza che non compare nelle opere satiriche precedenti, mostrando che alla fine ogni pretesa finisce… nella rumenta.

I nobili di spirito e gli schizzinosi

che no lêsan sta poexîa

       questo cànto, destinòu

       a ilustrâ a sudicerîa

       o rescìdoo desprexòu

       de l’efìmera grandéssa

       da ridìcola alteréssa

       de quést’òmmo ch’o s’aténta

       de dâ lézze scìnn-a ‘n çê

       e o finìsce inta ruménta

       inte ‘n sàcco da strasê

  Bén divèrso mi da quéllo,

       me ghe lêvo de capéllo,

       e salûo profondaménte,

       con rispètto ed umiltæ,

       sto rifiûto pusolénte

       da supèrba umanitæ.

Segue un esilarante, e inquietante, elenco di rifiuti prodotti dall’uomo e dalla sua cosiddetta civiltà. La vertigine della lista la chiamerebbe Umberto Eco.

Il poemetto si conclude con un’invettiva vivace alla presunzione umana nella quale possiamo ancora riconoscerci.

Il poemetto è reperibile in rete, ma lo riporto integralmente nella rubrica Libri alla Ponentina

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https://digilander.libero.it/alguas/bacigalupo.htm

http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=525

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-b/niccolo-bacigalupo/

NICOLÒ BACIGALUPO

FLUENTE ERA IL SUO VERSO

COM’ACQUA DI PURA FONTE

(retro)

CON L’OBOLO

DEI CITTADINI

1920

Grazia Tanzi

(Informazioni sull’autore)

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