Di Massimo Bramante

Punto di partenza potrebbe essere una lapidaria, bellissima considerazione sul pesto genovese del cantautore/poeta Gino Paoli tratta da un recente libro-intervista, scritto con il giornalista Daniele Bresciani, dall’ironico e provocatorio titolo “Cosa farò da grande – I miei primi 90 anni”: “Il basilico deve essere quello di Pra’.  Non ce n’è così da nessun’altra parte…”. Paoli aggiunge poi, saggiamente, “nel ponente di Genova ha un profumo delicato, un sapore deciso; rimane schivo, chiuso, riservato. Come i genovesi”.

        E’ proprio così. Lo straordinario basilico di Pra’ in fondo è una metafora vivente, preziosa e provocatoria, del carattere dei genovesi e delle genovesi che si adoperano, con magici tocchi, a trasformarlo, assieme a pochi altri ingredienti, in quel pesto che è raro incontrare nel mondo-intero chi non ne conosca il nome e non ne apprezzi profumo e sapore.

        Scrive un grande esperto di Storia culinaria ligure: “Il Pesto non è nato come noi oggi lo conosciamo ma è il frutto di tanti piccoli cambiamenti portati dalle diverse abitudini alimentari, dalle tecniche di cucina, dalla tecnologia, dall’evoluzione degli ingredienti, dalle mode, dalle possibilità economiche di ciascuno” (Sergio Rossi, “Pesto”, Sagep editori).

        Abbinare basilico e pesto ai progressi della tecnologia, all’evoluzione dell’economia può sembrare forse eccessivamente arbitrario o ardito, ma non è così.  Non fosse altro – e Sergio Rossi lo fa assai bene nel suo agile e documentato saggio – se si riflette sulla sostanziale differenza che intercorre tra un “pesto qualsiasi” uscito dalle fredde fauci di un moderno frullatore, “per renderlo più proponibile per i grandi numeri” (quelli dell’export che tanto aiuta, purtuttavia, l’economia d’eccellenza agroalimentare ligure), ed il fascino irraggiungibile del marmoreo e candido mortaio dei nostri nonni : “E’ storia dei nostri giorni, in cui il mortaio sembra riappropriarsi, almeno in parte, del terreno perduto, se non altro nella preparazione casalinga e di pochissimi ristoranti” (op. cit. , p.26).

        Una straordinaria preparazione gastronomica, il pesto, che si perde negli anni (forse nei secoli) e che ci consegna una narrazione che coloro che si occupano meritevolmente di civiltà contadina e Storia della gastronomia ligure ben conoscono.  Leggiamo la dotta lezione di Alessandro Molinari Pradelli (“La cucina della Liguria”, Newton & Compton editori): “Nel mortaio innanzitutto si pesta l’aglio e il sale grosso, così quando si aggiungeranno le foglie del basilico (lavate e asciugate) queste manterranno il colore verde intenso. E’ importante che il pestello non ammacchi gli ingredienti sul fondo del mortaio, ma muovendosi in senso rotatorio sulle pareti  li “sciolga” senza violenza e li impasti progressivamente e lentamente. Dopo il basilico tocca ai pinoli e ai formaggi. Infine, goccia a goccia, l’olio”.

        Poesia pura, arte culinaria ai livelli più elevati, dove le ovali e tenere foglie del basilico di Pra’, trasformatisi ora in gustoso pesto, non si limitano ad aromatizzare e condire spaghetti, trofie, gnocchi, minestroni, lasagne e quant’altro, ma testimoniano cosa realmente separa una gastronomia territoriale unica e raffinata, che riesce a valorizzare al meglio un umile prodotto della terra, e una  gastronomia-del-frullatore “usa e getta”, a cui mai un/una vero/a genovese doc  vorrà adattarsi.

        Poesia pura, ma anche invito soffuso e silenzioso a riflettere  sull’importanza, in Economia, del troppo sottovalutato fattore produttivo Terra.

        Intorno alla metà del Settecento nasce, in Francia, quella che viene da sempre considerata la prima scuola economica in senso moderno; una scuola che si adopera per elaborare un’organica teoria economica in grado di rappresentare la dinamica complessiva del circuito produttivo.  E’ la fisiocrazia (dal greco physis, natura e kràtos potere).  Sono i produttori agricoli, con il loro “lavorare la Terra” e renderla produttiva a creare la vera ricchezza, quel produit-net (prodotto netto, surplus) che permette di “seminare” nuovamente ed attivare così un nuovo ciclo di produzione. Con gli occhi (e le conoscenze scientifiche in campo economico) di oggi questa visione potrà anche apparire semplicistica, fragile scientificamente, persino ingenua…

        Non è del tutto vero.  Pensiamo appunto, ad esempio, alle aziende agrarie liguri, piccole o grandi, talora monofamiliari, che “lavorano la Terra” e producono quel basilico su cui qui si riflette.

        Procediamo con ordine. “L’azienda agraria  – ha scritto l’economista Luca Carpentieri – è un sistema dinamico che si autoregola in relazione alle interazioni tra istituzioni, economia, ambiente e tecnologia…Non ha la sola finalità economica di produrre beni alimentari, ma si estende anche alla produzione di beni immateriali (qualità, tutela dell’ambiente e del paesaggio, presidio territoriale, ecc.)”.

        L’agricoltura così intesa e praticata, non certo quella c.d. “intensiva”, non ha quindi solo una funzione economica di creazione di profitto ma ad essa si addice il concetto di multifunzionalità (socializzazione, spillover di conoscenze tra soggetti impegnati nello stesso lavoro nei campi, salvaguardia della salute – si pensi alla fitoterapia – valorizzazione ambientale e paesaggistica, etc.).  Come ha fatto notare Edward Mukiibi, Presidente di Slow Food, è oggi necessario ridefinire i concetti stessi di coltivazione della terra e di bene alimentare, “spostando l’attenzione dal cibo in sé come derrata, al territorio dove questo viene coltivato e prodotto.  E’ una diversa prospettiva che mette al centro la struttura sociale, i suoi legami culturali con la terra e i paesaggi abitati, e che ridefinisce i parametri alimentari, abbandonando il solo dato quantitativo di import-export”.

        La coltivazione del basilico (“pianta regale”, dal latino basileus) a Pra’ e nella piana ortofrutticola di Albenga si inserisce pienamente – a nostro avviso – in questa diversa, pregnante, prospettiva.  Così come, per fare un ulteriore esempio collocato anch’esso nel Ponente ligure, l’aglio di Vessalico, coltivato negli 11 comuni dell’Alta Valle Arroscia, nell’ imperiese, in terreni vocati a questa coltivazione, i classici terrazzamenti liguri sostenuti da muretti a secco, con agricoltori specializzatisi nel tempo in tale coltivazione.

        Multifunzionalità dell’agricoltura: non solo creare ricchezza – come insegnava la scuola fisiocratica settecentesca – per chi coltiva, chi lavora il prodotto e chi lo commercializza, ma anche (il basilico ne è chiara testimonianza) avere a cuore la salute stessa di chi lo consuma.  Le proprietà salutari di tale pianta sono ancora non a tutti note.  Il basilico è fonte di vitamina A, C, B, K , contiene minerali indispensabili per la salute umana quale magnesio, ferro, potassio, fosforo e calcio e alcune ricerche dimostrano oggi che può essere d’aiuto per chi soffre di dolori alle articolazioni o malattie intestinali croniche. D’altra parte usi terapeutici del basilico erano decantati perfino in epoca greco-romana.

        In tempi a noi più vicini, nel 2005, la Commissione Europea ha riconosciuto la DOP (Denominazione di Origine Protetta) al “basilico genovese” (Regolamento CE n.1623/2005); garanzia tanto per i consumatori quanto per i produttori che seguono gli adempimenti previsti dal disciplinare dedicato. La DOP: “non un semplice marchio ma un bene comune” – fa notare il Fondo Europeo Agricolo per lo sviluppo rurale.

        Innovazione e nuove tecniche di produzione, altro caposaldo della multifunzionalità.  Alla produzione tradizionale sul terreno, colline affacciate sul mare, si sta oggi affiancando nel Ponente ligure la c.d. produzione “fuori suolo”, una tecnica innovativa per cui “è possibile massimizzare l’utilizzo di tutti gli input produttivi (acqua, sali minerali, ecc) ed ottenere rese al metro quadro nettamente superiori a quelle che si avrebbero coltivando con il metodo tradizionale abbassando inoltre il rischio di attacco da parte di funghi e parassiti”.  E’ questa una tecnica che impone però significativi investimenti di risorse finanziarie e soprattutto personale, agronomi, specializzato (si veda “LIGURIA FOOD”, n.35/2023, pp, 55/60).

        Le persone: saper “lavorare la terra”, rispettando nelle coltivazioni ritmi e tempi delle stagioni ma, anche, saper organizzare efficacemente la produzione attraverso tecniche innovative – come avviene a Pra’ , nell’albenganese, nell’imperiese – in grado di valorizzare al massimo i fattori produttivi terra e lavoro.  Lo sottolineava già uno dei padri della Scienza economica moderna, Alfred Marshall, nei suoi “Principles of Economics” (1890).  E’ necessario valorizzare le attitudini di chi lavora, le aziende grandi o piccole che siano devono adoperarsi per “collocare la persona giusta al posto giusto”; è l’arte di utilizzare al meglio il territorio e le capacità lavorative presenti in tale territorio, avendo sempre presente che “sono sempre grandi i vantaggi che le persone impegnate in uno stesso mestiere specializzato traggono dalla reciproca vicinanza…”. Sono queste parole del grande economista inglese.  Chi coltiva la pianta del basilico (“oro verde della Liguria”) a Prà e nel ponente ligure e chi gestisce l’industria sempre più fiorente del pesto le conferma e concretizza con il proprio lavoro, quotidianamente.

Massimo  Bramante
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