Il Contastorie

Rubrica a cura di Roberto Gerbi
Il piacere di scoprire storie curiose, divertenti, drammatiche che un appassionato di libri ha ritrovato in biblioteche polverose, vecchie riviste e, qualche volta, in internet


PIETRO LOLLOBRIGIDA E LA NUOVA DIVINA COMMEDIA

Subiaco, ridente cittadina in provincia di Roma, è nota per i due magnifici monasteri benedettini che sorgono nelle sue vicinanze e per aver dato i natali a due illustri personaggi dallo stesso cognome: Pietro e Gina, all’anagrafe Luigia, Lollobrigida.

Quest’ultima è stata un’attrice tra le più belle, popolari e premiate; basti pensare alla sua interpretazione della Bersagliera, a fianco di Vittorio De Sica, in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini, nel 1953. Alla fine della carriera cinematografica, ne iniziò una seconda come fotoreporter e giornalista, culminata negli anni Settanta con un’intervista a Fidel Castro, e una terza come scultrice. Ormai anziana espose pubblicamente le sue simpatie politiche, candidandosi alle elezioni europee del 1999 e poi alle politiche del 2022, in entrambi i casi per partiti di sinistra.

Meno conosciuto è Pietro Lollobrigida, nato a Subiaco il 1° gennaio 1846, da Crescenziano e Annunziata Caronti. La sua professione era quella di medico, avendo conseguito la “matricola di libero esercizio” in Medicina presso l’Università di Roma, e nella capitale si trasferì con la qualifica di medico di guardia nelle farmacie dell’Urbe.

La sua vera passione fu però sempre la poesia ed era giunto a cambiare la grigia bombetta dottorale in un cappellaccio da artista a larghe falde. Nelle sue prime carte da visita si leggeva: “Medico cerugico, autore dell’Inno nazionale dantesco: La Risurrezione”.

«Brigida Lol» o semplicemente «Lollo», come amava definirsi, si era rivelato

“al mondo atonito,

                        che dopo Dante

                        altro gigante

                        non vide più”

con un volume di versi intitolato Il canto dell’Aniene, uscito nel 1882.

Come scrive Giuseppe Petrai, “forse il Lollobrigida si sarebbe contentato di diffonderlo fra gli amici, perchè, a quel tempo, egli era più modesto, ma gli amici – e più specialmente i suoi colleghi medici, – […] lo sollecitarono a fare un giro per le redazioni dei giornali, presentando all’esame della critica il libretto.

Il Lollobrigida capitò anche all’”Omnibus” e il Parsi,[1] in un articolo graziosissimo in cui non si raccapezzava se parlasse sul serio o per burla, portò alle stelle il nuovo poeta. Gli altri giornali, anche i più seri, fecero eco agli sperticati elogi del Parsi, ed una sera, parecchi giornalisti, offrirono al Lollobrigida nel “Ristorante del Melone” un banchetto, al termine del quale il prof. Ernesto Mezzobotta, del “Capitan Fracassa”, tirò fuori una corona d’alloro, che in mezzo alle ovazioni dei commensali, fu posta sul capo al poeta.

La corona era veramente magnifica: a bacche d’oro, con nastri di seta lunghi due metri. Non so più quanto costasse, ma ricordo che vi era unito un indirizzo in cartapecora firmato da un centinaio di persone, giornalisti, medici e studenti dell’Università. […]

Qualche tempo dopo l’avvocato Rubichi […] organizzò una gita nell’”alma città di Subiaco” per incoronare solennemente, alla presenza dei suoi concittadini, il “Dante redivivo”.

La serietà con cui fu celebrata la ridicola cerimonia meriterebbe una descrizione speciale; il discorso pronunciato dal Rubichi in codesta circostanza è un peccato che non fosse stampato. La caustica vena di così brillante e geniale umorista ebbe, quel giorno, torrenti di grazia e di giocondità”.

Pare che amici e studenti di medicina gli cingessero la fronte anche con serti di paglia e con foglie di cavolo, tanto che lui stesso si vantò dell’appellativo di “poeta cucurbitaceo”.

Alcuni critici dell’epoca lo definirono “un poeta, un grande poeta”, e fu proprio la considerazione di cui Lollobrigida ritenne di essere circondato, a convincerlo della bontà di realizzare un progetto che meditava da tempo: scrivere una Nuova Divina Commedia, spinto dal desiderio di aggiornare il divino poema e di cantare fatti e persone dei sette secoli successivi a Dante.

Il poema sarebbe stato in 3 cantiche, di 33 canti il Purgatorio e il Paradiso, ma di 35 l’Inferno, uno più del modello da aggiornare ed eguagliare, forse da superare.

Nella sua autobiografia il “poeta” scriveva: “Molti hanno a me rivolto domanda del perché e come ebbi l’idea di comporre un lavoro così improbo ed immane superiore quasi alle forze umane, tanto che non fu mai da niuno tentato, né tampoco immaginato avendo il solo Alighieri saputo dare alla sua visione una forma così tipica uno spirito così altamente originale, sublime, divino, quale niun altro poeta seppe dare ai versi o poemi per quanto classici e divini”.

Finalmente, nel 1891, il “Fanfulla della Domenica” poteva salutare l’uscita dell’Inferno con una recensione in prima pagina, su quattro colonne, che iniziava con queste parole:

“Egli ha pubblicato il poema promesso. Chi egli? Il Carducci La canzone di Legnano? il Rapisardi Prometeo? Meglio, meglio! Il Nencioni… Panzacchi… D’Annunzio… Marradi…? E chi se ne degna! Pietro Lollobrigida, anzi il dottore Lollobrigida Pietro da Subiaco, ha dato fuori la sua Nuova Divina Commedia. […]

Ah, poeta arcidivino, non farci troppo aspettare il resto del tuo viaggio più straordinario di quelli d’Ulisse, d’Enea, di Giulio Verne, di Saturnino Farandola! Tu hai aperto nuova via allo spirito umano, hai creato il darwinismo della poesia, hai indovinato quale mèta deve proporsi la rinascente musa italiana, tu che hai giusto diritto d’esclamare:

                        Il mare del progresso in me consumo”.

Nel poema Dante, sollecitato da una non meglio identificata verginella, beata in cielo, si fa incontro al Lollobrigida e s’impegna a scortarlo nei tre regni d’oltretomba. I primi versi restano memorabili, specie per le facili ironie che suscitano:

“Nel mezzo del cammin della mia vita

smarrito mi trovai sopra d’un monte

che mai non ebbe scesa né salita”.

“La terzina andava per le bocche di tutti ed era diventata celebre pel suo ermetismo; la scena lollobrigidesca si svolgeva in una regione «che mai non ebbe scesa nè salita»! «Dunque era piana? – chiedevano gli amici -. Macchè – rispondeva il vate -; è un’altra cosa; poteva èsse fatta puro a montarozzi; che le chiami salite e scese, quelle dei montarozzi? Disgraziati, diserti di poesia, vi manca la metodica».”[2]

Fatte le presentazioni con Dante, inizia rapidamente il viaggio agli inferi per cui:

                        “le gambe a camminar son come penne”.

Dante presenta Lollobrigida agli spiriti magni:

“È il primo affé

tra tutti gli Ippocratici e poeti,

che mai nel mondo fu, sarà, né v’è”.

Quindi il Poeta e il Maestro viaggiano in treno per l’Inferno:

“Così un nerastro mostro con spavento

vola dagli occhi nostri trascinando

altri pesanti carri a cento e cento.

Un lume è la lucerna folgorando

che l’occhio si smarrì per altre bande

come fa il lampo a chi lo sta guardando.

E poi un nuovo fischio e un urlo grande

e un traballar di terra e spruzzi e sprazzi

e fuochi e fischi e fumo al ciel si spande”.

Il primo dannato che sia protagonista d’un episodio di un certo rilievo, è Pio IX che, durante il Risorgimento aveva dapprima suscitato e poi tradito le speranze dei liberali italiani:

“Assunto al trono m’ebbi cura tanta

de’ popoli soggetti al mio potere

chè solo a fare ciò io mossi pianta;

e tutte mie promesse eran sincere

quando orrida corte in Vaticano

superba al ciel spiegò sue mire nere,

e, disse, o Pio, raffrena la tua mano

non più parola data, ma rivolta

ciò, che dicesti sia mendace e vano”.

Allora Pio IX, chiuso li cuore alle voci di libertà, sogna singhiozzando “patiboli […] carceri, sangue, strage, esilio e morte”.

Anonimo tedesco – Caricatura di papa Pio IX

L’invocazione alla pace e alla giustizia, cosparsa abbondantemente in ogni zona del poema, muove dal socialismo umanitario dell’epoca con effusioni espresse goffamente, eppure sentite ed espresse con una candida sincerità. La distribuzione dei dannati è operata con l’entusiasmo del liberale: nell’inferno, oltre a papa Mastai Ferretti e a un buon numero di altri papi antichi e moderni, sono posti tiranni vecchi e nuovi, “con ampia esemplificazione borbonica, le donne della coeva cronaca giallo-rosa accanto ad un’abbondante addizione al catalogo dantesco delle lussuriose dell’antichità, esposto «con voce assai jattuta e irriverente» (per ripetere un’espressione lollobrigidesca)”.[3]

Finalmente, dopo i 35 canti, e aver ficcato agli inferi un po’ di nemici personali, il viaggio sotterraneo termina:

“Poiché mi vidi al mondo ricondotto

e rimirai nel suol la molle erbetta

io resi omaggio a quel che m’ebbe edotto

sul verde prato a fior di violetta”.

La prima cantica del poema non andò a ruba: la acquistavano solo gli amatori di curiosità bibliografiche, dal portiere di Lollobrigida, in via Carlo Alberto 12. Spesso dava luogo a discussioni e commenti spassosi. Il poeta li aveva previsti e, conscio dello scalpore che avrebbe potuto suscitare l’opera, aveva posto alla fine dell’Inferno la solenne avvertenza: “L’Autore fa noto che non terrà conto di qualsiasi discussione che potesse insorgere su questa prima parte”. Se ne sarebbe dovuto riparlare soltanto quando fossero usciti i due restanti volumi.

Si narra però che il medico sublacense, dopo l’uscita dell’Inferno, fosse così convinto che gli fosse assegnata la cattedra dantesca allo Studio di Roma, da parte di Guido Baccelli, ministro della Pubblica Istruzione nonché anch’egli medico, che, deluso per non averla ottenuta, si vendicò cacciando il Baccelli nel Purgatorio.

Pietro Lollobrigida e il ministro Guido Baccelli
(disegno di Romeo Marchetti)

Lo colloca nel reparto aerostatico, insieme ai così detti palloni gonfiati:

“Al duca mio mostrai cotal pentito

e senza fallo dissi con franchezza

questi, maestro, fu Baccelli Guito.

E resterà la grande sua figura

come colui che ha, ma non produce

contrariando la istessa natura”.

In Purgatorio lollobrigidesco il ministro di trova comunque in buona compagnia, insieme a Silvio Pellico, Anita Garibaldi, Ciceruacchio, Pio VII, Quintino Sella, che:

“pensò di far baratto il gioco a lotto

sali e tabacchi e ferrovie ancora

giacché il disastro covava di sotto”.

Vi troviamo anche Galileo Galilei, Giordano Bruno, Marco Minghetti, Agostino Depretis, Alessandro Volta, Amedeo di Savoia e almeno un centinaio di medici, di cui fa il nome.

Lollobrigida non manca di visitare gli impianti telegrafici del Purgatorio:

“io guardo un apparecchio che dicea:

per me van le parole snelle snelle”.

Un canto epico è quello dedicato a Emanuele Filiberto che narra tutte le vicende di Casa Savoia e del risorgimento nazionale, concludendo:

“Italia, Italia, non di duolo ostello,

nave col tuo nocchier senza tempesta,

gran donna di province e non bordello”.

Infine, il Paradiso, dove Lollobrigida trova i fratelli Cairoli, Mazzini, Cavour, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Manzoni (che lo benedice dal cielo ed evoca per lui la storia civile di Milano); Mameli, ma anche Giovanna d’Arco, Petrarca, Tasso, Vico, Raffaello, Michelangelo e Giuditta Tavani Arquati, l’eroina trasteverina uccisa dagli zuavi francesi nei moti romani del 1867. Il trionfo finale è dedicato a Garibaldi, di modo che la satira politica della prima cantica cede alle note commosse della seconda e all’apologetica nel Paradiso:

                        “O vecchio venerando, o prode santo

o gloria imperitura ed immortale

o della patria mia decoro e vanto,

come ti segue bella e trionfale

a eletta fra le elette quella schiera

che al mondo a un cenno tuo mettea le ale;

ch’essa innalzando· l’Itala bandiera

di croce savoiarda trapuntata

vide per te venir novella era”.

Parla per telefono con Napoleone, che si trova ancora in Purgatorio:

“Tin! Tin! Tin! suonando mi feria

un celeste rumor che sprona il cuore

come volente persona che arriva.

Al che accorse pure il mio signore

che fu presente a questo favellare

fra un’alma santa e un santo direttore:

son pronto., con chi parlo, o alme care?

son l’anima del prode Bonaparte

son già stanca di più qua penare.”

Ed è prontamente accontentato:

“ed ecco intesi un altro tintinnare

dove angeli risposer che nel cielo

potrà venire e cessi di purgare.”

Il poema si conclude così:

                        “Quis ut Deus? di subito apparia

con tale raggio sì e no costante

che sua potenza l’anima vincìa.

Essa impedimmi bene il bel sembiante

che morta! corpo che terreno alletta

non può veder di Dio le luci sante

come si guarda in terra violetta”.

È facile immaginare i commenti e le critiche scherzose dei giornali; numerose furono le feste goliardiche e le inevitabili incoronazioni, durante le quali risuonava l’inno in onore del novello Dante con parole di Filippo Serafini e musica di Luigi Maroldi.

Nel 1886, il nostro tentò anche, senza successo, di candidarsi al Parlamento, con manifesti affissi nottetempo in tutti gli angoli di Roma che promuovevano il “medico cerusico, poeta manzoniano-dantesco, autore di una insuperabile monografia sul volvulo”.

Giuseppe Alberti ci racconta un curioso aneddoto:

“Lollo si trovava, la vigilia di Natale, «sostituto di guardia» in una farmacia nei pressi di piazza Vittorio Emanuele. Il medico titolare l’aveva pregato della sostituzione per quella notte; il proprietario della farmacia l’aveva destinato capotavola nel ricco cenone che apparecchiava ogni anno, nel retrobottega, al quale erano invitati altri medici suoi amici. Dopo copiose libazioni nelle quali entrò il raro «Frascati rosso» che appunto si liba «sotto Natale», il discorso cadde nella poesia classica e contemporanea.

Atmosfera satura d’elettricità; fuoco di fila di lazzi, motteggi, professioni di fede poetica, proposizioni di alta e bassa critica letteraria ed estetica; brindisi ripetuti. Poi il medico giornalista Venceslao Fraschetti (vero tipo di romano per buon senso e imperturbabilità) propose d’incoronare Lollobrigida

vate perfetto della Scienza e vate romano.

La corona si dovè improvvisare e per maligna alzata d’ingegno d’un commensale, assorto in quel momento in una operazione idraulica, non fu d’alloro, nè di quercia o di mirto, bensì di quel materiale con cui s’impagliano le sedie…

Lolla declamava; s’era lasciato andare a ripetere, cosa che avveniva di rado, le pittoresche e salaci invettive contro Donna Olimpia Pamphily la cui ombra egli evocava liricamente ed epicamente nelle notti estive all’uscita dalla preferita osteria all’Olmata e contro Vannozza de’ Catanei, madre di Lucrezia Borgia: le due donne «dissolute» da lui cantate nell’Inferno, avevano, secondo l’inesatta tradizione popolare, abitato in quei paraggi.

Approntata la corona, il solito caposcarico che si trova in ogni compagnia gliela calcò sulla testa; non entrava. Inumidita acconciamente mentre il poeta, al colmo dell’entusiasmo declamatorio attaccava una requisitoria estemporanea contro Baccelli, dàgli tu che do io, calzò. E tanto calzò che superato il massimo perimetro della teca craniense, oltrepassò naso, labbra, mento e s’adagiò sul collo.

Venne in quel momento una «chiamata» urgente. Lollo, come di consueto (era medico diligentissimo e alacre) si alzò subito da tavola, e dimentico di sè, della poesia… e della ciambella, prese bombetta, ferraiolo e mazza seguendo senz’indugio alcuno il pizzardone di scorta ai medici notturni nelle ore piccole.

La «chiamata» era per un abbaino al settimo piano. Arrivato ansante lassù, senza deporre il ferraiolo, al modo melodrammatico che gli era caro domandò: «Dov’è il malato? Mi raccomando la luce». Venne portata una fumosa lampada a petrolio che stagliava le ombre come in una scena dantesca. Il malato, cioè la malata, era una ragazzona che respirava con molta fatica e pareva giunta allo stremo. Si trattava di un grosso ascesso retrotonsillare. Lollobrigida, in pose gladiatorie, manovrando la lampada cercava di rendersi conto dello stato delle fauci muovendo di qua e di là la testa e il collo.

Così facendo mise in mostra l’insolita gorgiera coperta fino allora, alla meglio, dall’ampio mantello ottocentesco.

A uno strido soffocato della malata seguì un tempo d’arresto.

Lollo trasalì. La ragazza non si sentiva più respirare. Era stata presa da un riso convulso; dopo qualche conato di vomito si liberò dall’ascesso svuotatosi verso l’esterno per rottura spontanea.

Potenza d’una risata! Lollobrigida, quando più disperava di portar qualche soccorso efficiente, data la difficoltà dell’impresa, aveva ottenuto per la sola sua presenza una guarigione immediata, prodigiosa.

Ma invece di rientrare in farmacia trionfante, vi tornò furibondo… e abbottonatissimo. La «corona», ristrettasi per evaporazione dell’umidità, non si poteva più facilmente estrarre, dato che era ancor più malagevole il cammino a ritroso…

Per fortuna accorse Righetto, il garzone di farmacia, che con un rugginoso amputante dovè faticar non poco, mentre Lollobrigida sbuffava, per segare il nuovissimo collare”.[4]

Giuseppe Petrai si chiese se Lollobrigida fosse pazzo e così si rispose:

“No. Se si riusciva – lui presente – a portare il discorso su argomenti che nulla avessero che fare con la poesia, egli ragionava da uomo di senno; e, come medico, ho sentito dire più volte da altri medici che sarebbe stato un discreto professionista. Purtroppo la sua reputazione di figlio prediletto delle muse finì per nuocere al modesto discepolo di Esculapio, e i suoi clienti, temendo di aver a che fare con un pazzo, a poco a poco lo abbandonarono”.[5]

Il 13 settembre 1904 un colpo apoplettico abbatté Pietro Lollobrigida in via dei Quattro Cantoni. Trasportato all’ospedale di Sant’Antonio vi morì poche ore dopo, povero come si conveniva ad un poeta del buon tempo antico.

“Dai sanitari dell’ospedale, che tutti conoscevano il poeta-dottore, fu eretto un catafalco, con sei candelabri attorno, ed esposto il cadavere in una camera ardente, ove molti sono andati a visitarlo, e tra gli altri, la “sora Costanza”, ostessa di via dell’Olmata, della quale era assiduo cliente. La buona donna, piangendo, diceva ai circostanti:

            – Er busto ar Pincio mo je lo faranno?”[6]

I giornali diedero brevemente la notizia e la sua triste fine fece rievocare, con un velo di mestizia, la letizia che aveva tante volte, involontariamente, procurato.

Su «La Tribuna» del 16 settembre si lesse: “Oggi alle 15. la salma del dott. Pietro Lollobrigida chiusa in una misera cassa di legno dall’ospedale di Sant’Antonio con un misero carro di terza classe fu portata al Verano.

Una sola corona del nepote era sul carro con la scritta «al caro zio».

Una cinquantina di persone, amici e clienti ne seguivano il feretro”.

Rimase l’epigrafe sulla sua tomba, che egli stesso aveva dettato, e nella quale, dopo essersi definito “medico cerusico insigne, poeta eccelso, restauratore dell’italica letteratura per l’indicibile audacia di una Nuova Divina Commedia”, invocava “gli onori della Rupe Tarpea perché la gloria di Lollo non risvegli emulatori ma sempre rimanga tutta, sua unicamente sua”.

Poi non se ne parlò più, o meglio se ne parlò pochissimo finché un altro Lollobrigida, Francesco, salì all’onore delle cronache.

Francesco Lollobrigida è nato a Tivoli, il 21 marzo 1972, figlio di un medico discendente da una famiglia sublacense. Il suo bisnonno, Nazzareno, era fratello di Luigi, il nonno della Gina nazionale. A Subiaco si legano anche le prime fortune politiche di Francesco, che fu consigliere comunale della cittadina dal 1996 al 2000.

Laureato in Giurisprudenza presso la prestigiosa Università telematica Niccolò Cusano, era soprattutto noto per essere il compagno di Arianna, sorella maggiore di Giorgia Meloni.

Nel 2022, la cognata, diventata Presidente del Consiglio e dimentica di aver tuonato per trent’anni contro il clientelismo e il nepotismo, lo nomina ministro, scegliendolo non si sa in base a quali benemerenze, non avendo il Lollobrigida (Francesco) particolari competenze nell’ambito delle politiche agricole.

Ma cosa accomuna, l’ottocentesco Pietro Lollobrigida al suo omonimo contemporaneo, oltre alle comuni radici sublacensi e al comune soprannome di “Lollo”?

Prima di tutto anche il secondo, presto denominato da molti giornalisti “il cognato d’Italia”, ha suscitato fin dalla sua nomina a ministro una certa ironia. Sulla versione telematica di “Wired”, in data 23 ottobre 2022, si legge, a firma di Fabio Salamida:

“Un tempo era “spezzeremo le reni alla Grecia”, oggi si resta umili e le reni ci si limita a volerle spezzare agli involtini primavera e al kebab. Non può che essere questo il senso del cambio di nome del ministero delle Politiche agricole in ministero dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, uno di quelli che sancisce, almeno a parole, il passaggio dell’Italia a un regime “sovranista” (o “sovranello”, fate voi…). […]

Era il 2019 e Giorgia Meloni, in una delle sue tante invettive contro l’Unione europea, tuonò: “Oggi noi abbiamo un’Europa dove io devo farmi dire da Macron quanto deve essere il diametro delle zucchine che i miei pescatori possono pescare nei mari italiani. Tutto chiaro: il ministero dell’Agricoltura e della sovranità alimentare non è altro che il ministero delle Zucchine di mare. Che stupidi a non pensarci prima”.[7]

In secondo luogo, entrambi i Lollobrigida hanno un’alta considerazione del proprio aspetto fisico. Pietro, oltre a narrare piccanti avventure d’amore nella sua Autobiografia, proclamava nel Canto dell’Aniene:

“Onore a quel suol,

Che diè l’almo sol,

Quel bel girasol

Di Brigida Lol”.

Non meno incisivamente Francesco ha più volte dichiarato ai giornali: “Iniziarono a chiamarmi Beautiful quando facevo politica all’università: era il mio nome in codice per sfuggire alle rappresaglie dei compagni che attraverso le vere identità poi ti aspettavano sotto casa”.

Tattica che poteva peraltro rivelarsi controproducente, in quanto i perfidi comunisti lo volevano sprangare non in quanto fascista ma perché invidiosi della sua bellezza da attore hollywoodiano.

Infine, la comune inconsapevole propensione a inanellare brutte figure, Pietro poetando, Francesco semplicemente con le sue enunciazioni pubbliche. Ne elenchiamo qualcuna, sicuri che molte altre ce ne sono sfuggite.

Nell’agosto 2023, durante un incontro del Meeting di Rimini, il festival organizzato da Comunione e Liberazione, ha parlato delle differenze tra le abitudini alimentari italiane e statunitensi, affermando che: “Da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi, cercando dal produttore l’acquisto a basso costo spesso comprano qualità”.[8]

Angelo Morbelli – Mi ricordo quando ero fanciulla, 1903

Durante le Fiere Zootecniche Internazionali di Cremona ha raccontato la storia della vitellina Mary: “Noi ora stiamo subendo un’altra aggressione: l’aggressione del cibo prodotto in laboratorio. Si dice che Mary, la vitellina più piccola lì presente, sia un problema, venga curata male. Io non credo che quel ragazzo che lì accanto la tiene con tanto affetto, la maltratti. Mary fa la sua vita, finirà alla macellazione e produrrà carne di qualità”.

Il 2 aprile al Vinitaly di Verona, sul tema delle quote di stagionali richiesti per le campagne di raccolta di frutta e verdura, ha tuonato: “Nelle campagne c’è bisogno di manodopera e i giovani italiani devono sapere che non è svilente andare a lavorare in agricoltura. Anzi, quello che non è un modello di civiltà è non andare a lavorare, stare sul divano e gravare sulle spalle altrui col reddito di cittadinanza”. Non ha offerto una statistica circa i figli di onorevoli che hanno scelto tale “modello di civiltà” piuttosto faticoso e poco remunerativo ma il 12 giugno, cioè due mesi, dopo ha specificato: “Quando consigliavo di prendere in considerazione l’idea di andare a lavorare nei campi, non lo dicevo in termini negativi”.

Piuttosto confuso, appare anche sulla questione dei femminicidi. Durante la presentazione del disegno di legge in merito, che “interviene in maniera efficace su una criticità che sembra essere all’attenzione dell’opinione pubblica solo quando emerge il fenomeno e quindi la criticità”, il ministro afferma in conferenza che i provvedimenti “in termini strategici prevedono atti come questi che tendono a eliminare ed eradicare un problema di tale gravità e tale natura” e passa quindi a parlare del provvedimento che interessa il suo settore: “Le donne non si dovrebbero toccare nemmeno con un fiore e invece tratterò un argomento che è quello della produzione dei fiori e delle piante nella nostra nazione”.

La sua gaffe più clamorosa è stata sicuramente quella sulla superiorità della razza bianca. Il 18 aprile ha infatti interpretato così la crisi demografica: “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica”. Il suo tentativo di difesa, due giorni dopo, potrebbe considerarsi onesto: “Non sono pentito, ho solo sbagliato le parole. Per ignoranza, non per razzismo”, ma si contraddice subito dopo affermando: “Non credo sia corretto definirmi ignorante perché fino a ieri non sapevo chi fosse il signor Kalergi”. Infine, durante un colloquio alla buvette del Parlamento, prendendo un caffè, ha poi spiegato con grande serietà: “Io cito l’etnia in senso statistico. Del resto, persino al supermercato c’è la cucina etnica… E poi c’è la musica etnica. È razzismo pure quello?”.

Tutte queste affermazioni hanno spinto il biologo Enrico Bucci a dedicargli una poesia, “à la mode” del Lollo di 150 anni fa. […] Dunque, ecco i concetti […] volti in stanze a quattro righe, con rima alternata; e se questo mio tentativo dovesse risultar penoso, magari Lollo il vecchio si rivolterà nella tomba per il risultato, e vorrà consigliare meglio di quanto riesca a fare io il ministro e gli Italiani, nell’evitare certe uscite la cui comicità è superata solo dagli echi di un pericoloso ambiente nostalgico e suprematista.

Del cibo nazionale,

volendo discettare,

l’origine reale

è d’uopo ricordare.

Guardando a quel prosciutto,

così tradizionale,

si osservi come è il frutto

del cibo del maiale.

Un cibo che contiene,

ad onta dei somari,

un ben preciso gene,

inserto fra i suoi pari.

Il rosso del Campari,

colore sì perfetto,

è bene lo si impari

proviene da un insetto.

La storia di ogni piatto

è solo un’invenzione

che dato un tempo adatto

si volge in tradizione.

E se per gli alimenti

l’inizio è innovazione

si può restar silenti

su quanto è la nazione?

Di popoli migranti,

per diecimila anni,

son figli tutti quanti

sotto i moderni panni.

Pur dei romani vanti,

di cui certun si béa,

l’inizio è tra i migranti,

un tal nomato Enea.

A chi non piace il mito,

ma a chi Italian si noma,

di tante stirpi il dito

si vede nel genoma.

Perfin quella cultura,

da cui traiamo vanti,

non ebbe mai paura

di mescersi con tanti,

se è vero che di Egizi

di Greci ed altre genti

in Roma gli artifizi

già vinsero le menti.

Circassa era la madre,

e schiava per l’aggiunta,

di chi divenne il padre

del riso di Gioconda;

fra i padri della Chiesa,

d’Ippona oppur di Tarso,

per ogni dove è scesa

la stirpe e il gene sparso.

E dunque vi è soltanto

un tratto identitario

adatto proprio in quanto

è quello più unitario:

un misto di ogni gene,

di credo e di sapori,

che spiega donde viene

l’insieme dei valori.

Non v’è nella nazione

chi vanti un’etnia

senza sostituzione

di quella che fu pria;

non v’è neppur cultura,

fra quelle del paese,

che non da una mistura

abbia sue mosse prese;

e pur nella cucina,

fra tante buone cose,

miscela è la regina,

d’idee d’ogni paese.

E dunque torni appieno

a quel che è più italiano:

ministro non sia scemo,

né il vecchio segua invano!”[9]

Ridotto in questo stato dal cognato

(da “La Napoli di Bellavista” di Luciano De Crescenzo)

Per Pietro Lollobrigida i critici hanno parlato di “musa bizzarra” (Giorgio Petrocchi), di “poeta strampalato” (Ceccarius), di un genere di poesia che riesce senza senso “per pura bestialità degli autori” (Carlo Mascaretti). Quali saranno tra cent’anni, se ancora saranno ricordate, i giudizi sulle affermazioni di Francesco “Beautiful” Lollobrigida?

Le notizie sulla vita e le opere di Pietro Lollobrigida sono tratte da:

Giuseppe Petrai, “Un tipo singolare di poeta dottore”, su “L’Italia”, 15.10.1904;

Giuseppe Alberti, “Lollobrigida poeta laureato e taumaturgo”, in “Strenna dei Romanisti”, 1941;

Ceccarius, “Non soltanto Dante ha scritto la Divina Commedia”, in “Strenna dei romanisti”, 1965;

Giorgio Petrocchi, “Dante, Belli e il dottor Lollobrigida”, su “Studi romani”, Anno XXIII, n.1, 1975;

Pier Paolo Rinaldi, “Il piccolo libro del nonsense”, Vallardi Ed., 1998.


[1] “Il cavaliere Gustavo Parsi, un ricco giovinotto romano che dopo essersi cavati molti gusti, volle cavarsi anche quello di fare il giornalista. Ci rimise parecchie migliaia di lire, ma ce le rimise allegramente perchè, spirito bizzarro ed arguto, intanto si era divertito a prendere in giro il prossimo, cosa per la quale era stato sempre molto portato”. (Giuseppe Petrai, “Un tipo singolare di poeta dottore”, su “L’Italia”, 15.10.1904.

[2] Giuseppe Alberti, “Lollobrigida poeta laureato e taumaturgo”, in “Strenna dei Romanisti”, 1941.

[3] Giorgio Petrocchi, “Dante, Belli e il dottor Lollobrigida”, su “Studi romani”, Anno XXIII, n.1, 1975.

[4] Giuseppe Alberti, “Lollobrigida poeta laureato e taumaturgo”, in “Strenna dei Romanisti”, 1941.

[5] Giuseppe Petrai, “Un tipo singolare di poeta dottore”, su “L’Italia”, 15.10.1904.

[6] Giuseppe Petrai, “Un tipo singolare di poeta dottore”, su “L’Italia”, 15.10.1904.

[7] https://www.wired.it/article/sovranita-alimentare-ministero-lollobrigida/

[8] Una seria confutazione di tale delirante affermazione si può leggere su: https://www.wired.it/article/lollobrigida-poveri-mangiano-meglio//

[9] Enrico Bucci, “Una poesia per convincere Lollobrigida sull’infondatezza della sostituzione etnica”, su “Il Foglio”, 21 aprile 2023).

Roberto Gerbi

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