Il Contastorie

Rubrica a cura di Roberto Gerbi
Il piacere di scoprire storie curiose, divertenti, drammatiche che un appassionato di libri ha ritrovato in biblioteche polverose, vecchie riviste e, qualche volta, in internet


PSICHIATRI DA LEGARE

Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, Cesare Lombroso è certamente una delle figure più rappresentative della scienza psichiatrica italiana.

Il 24 agosto 1880, Enrico Morselli, allora direttore del Manicomio Provinciale di Macerata, gli rivolge una lettera in cui lo informa di avergli inviato altre due copie del suo libro Un genio da manicomio[1] e che gli avrebbe mandato fotografie e disegni fatti da suoi pazienti. La lettera è accompagnata da una fotografia di Giovanni Antonelli, il “genio” di cui tratta il libro di Morselli. Purtroppo, negli Archivi storici dell’Università di Torino, dove il documento è oggi conservato, mancano sia la fotografia che l’ultima pagina della lettera, con la firma.

Nel 1882, Cesare Lombroso, nel pubblicare la quarta edizione di Genio e follia, dedica a Giovanni Antonelli quattro pagine del capitolo Grafomani criminali, riprendendo i contenuti del libro di Morselli:

“Virgilio Antonelli è una mezza celebrità letteraria nelle Marche, benchè i suoi versi, già editi, non passino la mediocrità, e meglio valga la sua autobiografia”.

La conclusione di Lombroso, dopo aver esaminato la vita e le opere di Antonelli è che si tratta di un soggetto con tendenze sovversive, affetto da delirio di persecuzione e megalomania.

Cesare Lombroso                                                       Enrico Morselli

La risposta di Giovanni Antonelli al celebre psichiatra si può leggere nell’introduzione, A chi legge, al suo volume Il libro di un pazzo. Note autobiografiche e rime, pubblicato a Civitanova Marche nel 1892.

È una risposta che ribalta le conclusioni degli psichiatri e ne mette in discussione non solo la credibilità professionale, ma anche l’onestà intellettuale:

“Ho titolato il mio povero volume Note autobiografiche e Rime di un pazzo non già perché raccolga la nomea che m’hanno affibbiata; ma perché trovo sacrosanta la sentenza di Erasmo di Rotterdam:

Una gabbia di matti è il mondo tutto.

Io riconosco di non essere né più savio né più matto degli altri, ma più sventurato e meno cattivo. Qualunque altro avesse soggiaciuto alla gragnuola fitta, continua di sciagure e di brutalità umane, cui io soggiacqui e m’avvezzai, se fosse per combinazione strana ancor vivo, come io lo sono, mercè una robustezza soprannaturale, sarebbe antropofago. Io, nonostante la mia complessione erculea, il mio temperamento vulcanico, non ho mai reagito contro la implacabilità del fato e la grottesca malvagità degli uomini con altro mezzo all’infuori di quello ingenuo ed impotente del labbro e della penna, ribadendo così da me stesso i ferri che m’hanno avvinto e ferito. La mia vita sarà, come volete, satura di stravaganze, piuttosto che di sciagure, ma è scevra di macchie.

Ognuno è matto nella sua maniera

sentenzia il Giusti; e la mia maniera di esserlo è affatto innocua, passiva. Ho contribuito a rovinar me stesso per la causa comune, e mi tormento in eterno il cervello ed il cuore pel mio nobile ideale. Altri son matti nella maniera diametralmente opposta: rovinano il proprio simile, magari stretto congiunto, per vile e ributtante interesse personale. Chi di noi il pazzo più pernicioso? […]

E se è vera la scala fabbricata dal prof. Lombroso e compagni, quella cioè che dall’anomalo, dall’esaltato, dall’originale, dall’eccentrico va sino al matto, Lombroso che conosce così bene la materia, sarà per certo a capo di essa scala. Difatti, egli nel corso di sua vita, avrà voluto appagare molti suoi desideri bizzarri, sarà quindi mattoide, avrà avuto qualche momento di mestizia, sarà quindi lipemaniaco; avrà creduto che altri non riconosca i suoi meriti letterari e scientifici, sarà dunque delirante di persecuzione; vorrà scriver sempre e non saranno i suoi scritti tutta farina del suo sacco, sarà dunque kleptografomane, crederà alla propria infallibilità nella sua qualifica di pontefice della scuola psichiatrica, sarà dunque megalomane; sognerà pazzi dappertutto, ed eccolo anco allucinato.

Povero L…ombroso, chi gli avesse detto di tessere – a guisa del filugello – una tela per avvolgervi sé stesso e tutti i seguaci delle sue pedate, primo l’entusiasta Morselli!

Chieggo vènia al lettore di questa digressione, necessaria peraltro per spiegare con maggior chiarezza la forza del titolo del mio libro. Io porto il titolo di pazzo come altri quel di cavaliere; ugual merito nell’uno e nell’altro! […]

Oh, magari avesse ragione Morselli, ed anziché vittima della realtà più schiacciante di cose, io fossi vittima di un’illusione!”

Ma chi era veramente Giovanni Antonelli: un pazzo, un genio da manicomio come lo definisce Morselli, uno “zingaro poeta, pieno di ingegno”, come sostiene Aldo Barilli, un “Socrate contadino”[2] o solo un poveruomo perseguitato dalla sfortuna e dalle autorità?

Già la sua data di nascita è un mistero, che ci svela Massimo Gezzi, scrittore e poeta, autore di Uno di nessuno. Storia di Giovanni Antonelli, poeta,[3] e di Sulle tracce errabonde di un poeta pazzo, introduzione all’ultima edizione del Libro di un pazzo, pubblicata dall’editore Giometti & Antonello nel 2016:

“I registri parrocchiali attestano che Giovanni Luigi Benedetto Antonelli nacque nella notte (circa auroram) tra il 20 e 21 marzo 1848 a Sant’Elpidio a Mare (oggi provincia di Fermo), quartogenito del padre Damaso e dalla madre Carla (o Carolina) Teatini «ex Portu Firmi»“.

Come scrive Antonelli nel suo Diario: “I miei genitori, di cospicui natali entrambi, già versavano in grave decadimento finanziario, quand’io nacqui, ed in breve degenerarono in rovina completa”.

Il padre ha “una mente troppo fervida e un cuore troppo generoso per poter esercitare la professione di avvocato”.

Già da bambino Antonelli ha un carattere generoso e sensibile: “in quell’epoca spiegavo una suscettibilità singolarissima che rendevami or pio, or mesto, ed ora irascibile all’eccesso; ero molto proclive al pianto”. È anche uno spirito ribelle, “amantissimo del moto e di viaggiare sovente”.

“Nel 1861 la vista delle schiere provenienti dall’alta Italia, il suon de’ tamburi, gli squilli delle trombe, l’armonia delle fanfare commisti alle festanti grida promettenti il risorgimento nazionale, riempimmi di tale un entusiasmo, che mi sarei spezzato per esserne partecipe”.

Così, “malgrado i saggi consigli, le ammonizioni e le lacrime del povero padre”, “Procurai di arruolarmi in un corpo di terra; ma potevo essere accolto a dieci anni incompiuti? Il rifiuto mi rese più saldo nel proposito; nonostante la ripugnanza che la marineria ispiravami, ancor prima di conoscerla, il 29 agosto in Ancona m’arruolai quale mozzo di marina.

Un battello da guerra mi condusse a quel baratro che avidamente ingoiommi: al regio brich Daino”.

Giovanni Antonelli ha allora tredici anni, non dieci come afferma, e la sua decisione si rivelerà fatale.

“Ahi, da qual ribrezzo fui assalito, quando sull’estremità degli alberi del bastimento vidi molti poveri ragazzi avvinti da funi, e ne udii strazianti gemiti! Ed io ero stato iscritto, col nome di guerra Astro, nel novero di que’ piccoli martiri. Come trasecolato, ne chiesi una spiegazione; mi si rispose burberamente che tal sorte pur me attendeva se non avessi ottemperato a qualsiasi ordine. […]

Mi si obbligava ad eseguire lavori impossibili, almeno rispetto all’età, e non potendo eseguirli, fui seviziato, sfregiato. Allora conobbi la santità del paterno prognostico, e mi contorsi convulsamente, non potendo più liberarmi e riparare a’ miei torti. […]

Gli atti tirannici, i più scandalosi, esercitati a carico d’inetti fanciulli crescevano tratto tratto, ed io n’era la vittima speciale, perché colla mia causa patrocinavo quella di tutti gli altri oppressi.

Giallo, verde, nero, naso somigliante ad un camino, occhi da civetta, orecchie da somaro, ecco la prosopografia dell’ufficiale Ruffo, rampollo di quella famigerata stirpe napoletana storicamente iniqua,[4] il quale mi martirizzava giorno e notte con ogni possa. Era pederasta fra tante sue virtù quel fetentone, sudicio nelle carni e nelle vesta a tal grado che ammorbava l’aria. Accanto a lui l’infimo lazzaro di basso porto è il primo galantuomo”.

La vita stessa di Antonelli è messa molte volte in pericolo dalle angherie di Ruffo. Anni dopo scriverà in carcere un libro su questo periodo della sua vita: I misteri della stupida brutalità marittima, ossia il mozzo di marina.

Nel 1867, il giovane diserta: “volai all’appello di Garibaldi a Mentana. Ma, errata la via, caddi sotto l’artiglio della sbirraglia pontificia. […] Gettato nel carcere di Termini in Roma vi fui trattenuto sei mesi; poscia, consegnato ai Carabinieri a Pontefelice e scortato fino al carcere di S. Andrea, in Genova, fui messo a disposizione dell’Uditorato di marina pel consiglio di guerra”.

Il brigantino Daino a Napoli nel 1870

Era una delle unità a vela destinate all’istruzione dei Novizi e Mozzi

Di qui inizia un vero e proprio calvario carcerario, che così viene sintetizzato da Lombroso, riprendendo il libro di Morselli:

“Nel 1868 disertò di nuovo, ed arrestato a Valcimara, venne condannato a sei mesi di catena militare marittima, il tribunale attenuò la pena, dichiarandolo esaltato.

Nel 1869 fu trasferto [sic] alla Compagnia di disciplina per scontarvi la pena di un anno per aver pubblicato un articolo violentissimo sul giornale il Dovere di Genova, e per essere stato qualificato di condotta incorreggibile. Ivi subì molte volte la cella di rigore a pane ed acqua con applicazione di ferri corti, e finalmente, sottoposto al Tribunale militare di Firenze, questo lo condannava ad altri due anni di Reclusione militare.

Durante il trasporto, venne a parole con i Carabinieri, i quali, fatto un nuovo verbale, fecero si che dal Consiglio Superiore d’Ammiragliato gli venne aumentata la pena di sei mesi.

Compite queste varie pene, venne rimandato alla Compagnia di disciplina, dove subiva nuovi castighi disciplinari, e quindi nel 7 maggio 1873 ebbe il congedo illimitato.

Nè ritornato libero cittadino, cessò di dar pensiero alle autorità di P.S.”.

O piuttosto, come scrive Antonelli: “Liberatomi dai ceppi militari, m’avvinsero i ceppi civili”.

Da Sant’Elpidio, si spinge in giro per l’Italia in perenne ricerca di un lavoro.

In questo tormentato peregrinare, si mantiene tenendo conferenze su temi sociali e letterari e leggendo i suoi versi, anche se spesso sommerso dai fischi. Molti sono gli arresti

Certo il suo aspetto non lo aiuta. Ecco il suo Autoritratto in un sonetto:

“Ampia e increspata ho fronte, occhi loquaci;

ispido e folto crin, sembiante irato;

labbra grosse, sarcastiche, mordaci;

acceso capo e petto travagliato.

Robuste membra; idee talvolta audaci,

talvolta dubbie; sempre concitato

il parlare, il gestir; tristi e tenaci

le rimembranze del fatal passato.

Or lento e grave, or lungo e svelto il passo;

solo annoiato, in compagnia sdegnoso;

l’ingegno e il cor frementi, il braccio lasso.

In strana guisa fato procelloso!

Lotto contr’esso e contro i cor di sasso…;

e morte sol potrà darmi riposo”.

Giovanni Antonelli: “un di nessuno”

Nel settembre 1873, a Reggio nell’Emilia, “venni arrestato perché privo di… mezzi di sussistenza e dopo quaranta giorni di carcere rimpatriato, mediante foglio di via obbligatorio”.

Recatosi ad Adria, per cercare un’occupazione, fu nuovamente arrestato, tenuto in carcere per oltre un mese, e ammonito dal Pretore di Rovigo. Veniva poi nuovamente tradotto a Sant’Elpidio.

Il 17 aprile 1874, fu di nuovo arrestato, questa volta a Morrovalle, in provincia di Macerata, “come sospetto internazionalista, cioè per capriccio”.

Avendo reagito allo schiaffo di un brigadiere: “que’ prodi, dopo avermi incatenato, mi si scagliarono addosso, facendo di me scempio. Nondimeno, eroicamente mi difesi; novello Argante, se un colpo non giunse all’offesa, almeno seppi schermirmi. Nella zuffa agitavo convulsamente quei ferracci insanguinati, ma la genterella religiosa di Morrovalle gustava lo spettacolo, orgogliosa di scimmiottare i Cesari al Colosseo. […]

Compiuta la descritta scena, venni in orrido antro gettato ed in modo sì crudele legato sul tavolaccio, da risentirne spasmodici dolori in tutto il corso della notte, sprizzandomi il sangue dai pollici per la nefanda applicazione dei vincoli omonimi”.

Anni dopo, dedicherà a questi fatti il sonetto Infamia sbirresca:

“Ahi, Morrovalle, eterna calamita

di sgherri e di quant’havvi al mondo abbietto,

orribil fogna a’ rettili gradita.

benché t’abbia già tanto maledetto

fra’ più tristi ricordi di mia vita,

ti maledico pur con un sonetto.”

Condotto a Macerata, fu trattenuto in carcere per 6 mesi e 13 giorni. Resta leggendaria, almeno nella memoria del protagonista, la propria autodifesa, a seguito della quale il Tribunale lo dichiarò sufficientemente punito e lo rilasciò:

“Ottenuta la parola, sorsi io a protestare contro quella melma che rende più odiosa che mai l’assisa del birro.

La favella sciolta, la voce armoniosa, l’eloquenza inesausta, i lineamenti contraffatti, i gesti, gli scatti uscivano dall’orbita umana. Stupefatto, commosso, il popolo applaudiva.

Ero animato da slancio superiore; fui reputato in codesta Atene delle Marche quel che fu Cicerone al Foro romano.

I miei aguzzini rimasero trasecolati”.

La sua libertà non durò a lungo. Nel 1875, a Roma, dopo aver subito un’aggressione da parte di individui rimasti sconosciuti, fu di nuovo arrestato per vagabondaggio; dopo esser stato trattenuto per alcuni giorni senza processo, fu allontanato con foglio di via.

Nel novembre dello stesso anno, venne arrestato nuovamente per una lettera insultante, inviata al sotto-prefetto di Fermo cui aveva chiesto, venendone irriso, “una occupazione che mi permettesse di non morir di fame”. Rimase in carcere 46 giorni, dopo di che gli venne inflitta la pena di 6 mesi di sorveglianza speciale.

Infine, arrestato ancora una volta a Fermo, come ozioso e vagabondo, tornò in carcere, dal quale egli stesso, dicendosi malato, chiese di passare in un manicomio.

Come afferma Morselli: “Accolto nel Manicomio di *** [Fermo] ben presto si rese insopportabile a tutti col suo contegno provocatore, e col cercar di mettere il subbuglio fra gli altri malati, onde fu traslocato nel maggio 1877 al Manicomio di Macerata”.

Il punto di vista di Antonelli sul manicomio di Fermo, i suoi medici, suora Angelina, addetta alla sezione uomini, “tale che per lei l’appellativo di vipera è un elogio”, può essere sintetizzato in questo breve dialogo col dr Ciucci, direttore dell’ospedale psichiatrico. L’Antonelli si dice annichilito dalla malvagità cretina degli uomini e in una profondissima prostrazione di spirito:

“- Con un po’ di docciature fredde – soggiunse il medico più freddo della stessa doccia – e con qualche annetto di reclusione passerà tutto; state tranquillo.

– Io credo che peggiorerò, direttore.

– Se morirete, vi manderemo al cimitero.”

Il Manicomio Provinciale di Santa Croce a Macerata
 

Il Manicomio Provinciale di Santa Croce a Macerata

Nel manicomio di Macerata Antonelli incontra Enrico Morselli, allora suo Direttore:

“Se mi lagnassi di Morselli sarei ingiusto. Egli è molto eccitabile, ma d’indole buonissima; è l’alienista più leale ch’io m’abbia conosciuto. Fatalità non ci fece andare d’accordo, perché egli è troppo pieno di sé e della sua scienza; io son troppo pieno della mia sventura.

Potrei dire che Morselli fu il mio mecenate serio: mi fornì di libri e di consigli”.

Morselli incoraggia Giovanni Antonelli a scrivere e gli mette a disposizione intere risme di carta. È di questo periodo il libro Un genio da manicomio, in cui lo psichiatra scrive:

L’Antonelli “non farebbe che scrivere; soltanto quando l’accesso sia forte, egli passeggia parlando ad alta voce e gettando invettive contro tutti i suoi nemici. Questi nemici poi sono sempre coloro che occupano, sia per censo, sia per ingegno, sia per ufficio, una posizione elevata nella Società… l’A… è eminentemente democratico, socialista, odiatore delle classi agiate, e proclama continuamente d’essere un povero genio vilipeso da tutti i satrapi della Società. Quanto ai suoi scritti, egli ne ha fatti moltissimi, ed ora stava per esempio scrivendo tre romanzi in una volta sola, dal titolo il primo: Un viaggio da Ancona a Roma; il secondo: Il testamento d’un prete; il terzo: Il Conte assassinato. Negli ultimi mesi molti episodii della sua vita avventuriera – un opuscolo sull’Istruzione delle Classi proletarie ed operaie – parecchi numeri d’un Giornale del Manicomio di Macerata, in cui faceva la cronaca quotidiana dello stabilimento, con articoli di fondo, sciarade, satire ecc. tutto di sua iniziativa: – moltissime memorie rivolte al Direttore o a membri della sua famiglia per raccontare ad essi i suoi più minuti pensieri: – nello stesso tempo petizioni, lettere, promemorie [sic] a favore di altri malati e di non pochi inservienti, che l’avevano scelto a segretario. Ha altresì promesso di scrivere una Commedia ed una Tragedia pel teatrino del Manicomio, e chiestogli un giorno che desse la lista delle opere da lui redatte in tutte le sue peregrinazioni, mi ha consegnato un lungo elenco, da cui estraggo i titoli seguenti:

I Misteri della fatua brutalità marittima, ossia il Progresso retrogrado del secolo XIX, opera in 5 volumi;

Un poema in ottava rima, intitolato: Il mozzo di marina;

Compendiuccio romantico, un volume;

Lettere scelte (Epistolario di letteratura), un volume;

Un altro poema in isciolti, intitolato: Il Pauperismo in Italia e i mezzi per estirparlo;

Un dramma bernesco in 5 atti dal titolo: Il Celibe annoiato;

Delle traduzioni dal latino (?);

Sonetti, epigrammi, acrostici, sciarade, indovinelli, rebus, ecc.

Articoli pubblicati su varî giornali politici, come Il Dovere, il Corriere delle Marche, ecc.

A tutti questi lavori egli tiene assai; e difatti, sebbene ripetano sempre gli stessi concetti sotto forma diversa, e qualche volta lascino desiderare alquanto dal lato della chiarezza e concisione, nullameno tutti palesano che va fino alla vera facondia, ma quel che è più, una logica stringente e serrata, rivolta sempre a confermare nel lettore la convinzione della grandezza e superiorità dell’Autore, e delle fatali circostanze che hanno influito sulla sua mente per affievolirla e perturbarla”.

La relazione tra Morselli, uno dei maggiori esponenti della psichiatria positivista italiana, e Giovanni Antonelli, è per entrambi intensa e importante, ma non priva di ambivalenze da entrambi i lati. Antonelli è per Morselli un genio da ammirare ma, al contempo, un malato da compiangere e da ridimensionare nelle sue aspirazioni e pretese megalomani. Morselli è per Antonelli colui che tra i primi ha creduto nelle sue capacità letterarie e che, pur in modo paternalistico, gli si è affezionato, ma è insieme l’esponente giovane e ambizioso di una psichiatria oggettivante, determinato a utilizzare ai suoi fini l’avventura letteraria e umana del suo geniale paziente.

Tra i due, quello maggiormente cosciente di queste ambivalenze pare essere l’Antonelli. In risposta alla pubblicazione del libro di Morselli risponde:

“Caro Morselli, ora due parole a me: voi sapete ch’io sono un alienato che, a forza di starci insieme, ne so al pari de’ maestri alienisti e conosco a menadito tutti quei paroloni diagnostici e anamnestici, di cui han sempre piena la bocca. Orbene, non offendetevi, se un vostro allievo di tal fatta vi dice in faccia: voi mi avete sbagliato la diagnosi. […]

Io non sono delirante di grandezza: anzi mi stimai sempre molto meno di quel che valgo. Voi avete interpretato per megalomania la reazione all’annichilimento di cui mi si volle vittima; reazione logica proveniente dal vedere altolocati e circondati da ogni bene e stimati in conseguenza da sé e da altri come superiori, uomini infinitamente inferiori a me, dannato a trascinarmi senza pan, senza vesti e senza tetto, in mezzo ad un marciume, per cui l’essere sta nell’avere. Eccovi la mia autodiagnosi: uno strano miscuglio di timido e di fiero colla smania di voler sembrare più fiero di quel che sono. La mia pazzia è il cretinismo ipocrita e malvagio altrui. Datemi un ambiente meno indegno di me, e mi troverete di lunga men pazzo degli altri. Respingo, dunque, assolutamente il delirio di grandezza, ed accetto in parte quello di persecuzione da voi attribuitomi, il quale trova pure la sua giustificazione nelle sofferenze a cui soggiacqui.

Avrei dovuto proprio avere il cervello ed il cuore di bronzo per restare incolume fra tanti e sì spietati colpi, che avrebbero fatto di Giobbe un ossesso!

Nessuno al mondo, e gli alienisti meno di altri, perché hanno interesse d’idealizzare, di esagerar sempre, ed in ciò sorpassano i loro clienti, conosce il mio vero atroce soffrire nervoso”.

La vita di Antonelli non avrà momenti lieti: tra fughe dai manicomi in cui viene di volta in volta rinchiuso, amori non corrisposti, e nuovi arresti.

A Roccaraso, il 2 giugno 1882, allo “sbirro” che gli chiede se mai ha avuto a che fare con la giustizia, risponde: “No, sempre con l’ingiustizia, come in questo momento”.

Così, di prigione a cella di manicomio e di nuovo in prigione, trascorre la vita di Antonelli. La sera del 2 aprile 1887, a Napoli, tenta di suicidarsi gettandosi in mare. Salvato da alcuni marinai, viene di nuovo arrestato, e gettato in una cella gelida, bagnato fradicio.

È superfluo soffermarsi sulle sue altre disavventure, basta lasciar parlare la chiusa del Libro di un pazzo:

“Va, libro mio, abbi fortuna.

Tre tipi diversi incontrerai per via: l’alienista, il critico ed il criticuzzo. Sarai da essi arrestato, interrogato e perquisito come il tuo autore, benché tuttavia incontaminato, lo fu ad ogni piè sospinto da carabinieri e simili.

Il primo ti studierà come parto di un singolare fenomeno; il secondo ti saluterà parto di un poeta abortito; il terzo negherà ogni tuo pregio, perché la sua ampollosa nullità ne rimarrà mortalmente oltraggiata.

Sorridi a tutti lo stesso.

Va, libro mio; abbi fortuna e leniscimi le angosce. […]

La mia sentenza è scritta; i posteri, se dissimili dai presenti, vi coglieranno il mio vero tipo, e mi giudicheranno”.

Gli ultimi avvenimenti descritti nel Libro di un pazzo sono relativi al 1892. Passano ancora molti anni di povertà, umiliazioni e prigionia. Giovanni Antonelli muore per polmonite il 9 gennaio 1918, nell’Ospizio Vittorio Emanuele II di Ancona.

In un sonetto, A un criticuzzo, aveva scritto:

“Chiamatemi pur matto da catena,

quanto vi piace, o svergognati, o inetti;

dite pur ch’è selvaggia la mia vena,

che son roba da chiodi i miei sonetti:

ma non sperate già di darmi pena

co’ vostri insulsi e limacciosi detti;

non lo sperate già… la pelle appena

mi sfiorano le ingiurie degl’insetti.

I rari onesti e saggi del paese

mi renderan giustizia, poi che sanno

contro chi scaglio le mordaci offese.

Pietà mi muove del comune affanno

a fulminar le vostre infami chiese,

fonti perenni di nefando inganno”.

Per una strana coincidenza, Alda Merini, un’altra poetessa il cui destino è stato strettamente e dolorosamente legato alla realtà manicomiale, è nata, come Giovanni Antonelli, un primo giorno di primavera, il 21 marzo 1931:

“Sono nata il ventuno a primavera

ma non sapevo che nascere folle,

aprire le zolle

potesse scatenar tempesta.

Così Proserpina lieve

vede piovere sulle erbe,

sui grossi frumenti gentili

e piange sempre la sera.

Forse è la sua preghiera”.[5]

Questi suoi versi, sul manicomio, possono essere letti come un testamento per entrambi i poeti:

“Il manicomio è una grande cassa di risonanza

e il delirio diventa eco,

l’anonimità misura,

il manicomio è il monte Sinai,

maledetto, su cui tu ricevi

le tavole di una legge

agli uomini sconosciuta”.[6]


[1] Pubblicato a Macerata, nel 1879.

[2] Davide Nota, “Vita di Giovanni Antonelli, il poeta pazzo”, su “Huffpost”, 15.11.2016.

[3] Dal testo di Massimo Gezzi è stato tratto Io sono Antonelli, poema musicale in atto unico, di Roberto Zechini: https://www.facebook.com/Roberto.Zechini.34/videos/163782915508482/

[4] Antonelli si riferisce all’omonimia, o forse a una parentela, col cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo dei duchi di Bagnara e Baranello (San Lucido, 16 settembre 1744 – Napoli, 13 dicembre 1827), celebre per aver fondato e comandato l’Esercito della Santa Fede, armata antigiacobina che portò alla fine della Repubblica napoletana del 1799.

[5] Alda Merini, “Vuoto d’amore”.

[6] Alda Merini, “La terra santa”.

Roberto Gerbi

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