Il Contastorie

Rubrica a cura di Roberto Gerbi
Il piacere di scoprire storie curiose, divertenti, drammatiche che un appassionato di libri ha ritrovato in biblioteche polverose, vecchie riviste e, qualche volta, in internet


GIUDICE O POETA?

Il Dizionario Biografico degli Italiani, edito dalla Treccani, mette a disposizione, in rete o nei suoi cento volumi cartacei, oltre quarantamila biografie. Tra i tanti personaggi citati, stupisce l’esclusione di alcuni che hanno avuto, anche se non sempre volontariamente, una notevole importanza sulla vita culturale del nostro paese.
Ferdinando Raffaele Pascale Mariano Ingarrica, nacque il 6 aprile del 1787 a Napoli. Laureatosi in Giurisprudenza, entrò in magistratura nel 1821. Considerato dai suoi superiori “magistrato di estrema delicatezza nei principii di condotta, di morale esatta, di contegno serio e sufficientemente istruito”, fece una rapida carriera che lo portò a diventare, nel 1829, giudice della Gran Corte criminale di Salerno.
Ora, come scrive, celandosi dietro le iniziali F.N.:

Il lettore deve trasportarsi con l’immaginazione in un’aula della Gran Corte criminale di Salerno, nell’anno di grazia 1833. In mezzo al banco de’ giudici è il presidente, che, con la testa appoggiata sul braccio destro, dormirebbe il più pacifico dei sonni, se non fosse di tanto in tanto svegliato di soprassalto da qualche urlo dell’avvocato difensore o da qualche amichevole gomitata o pedata, datagli di nascosto dal giudice anziano che gli siede a destra. I giudici sono tutti in atteggiamenti diversi. Chi guarda in alto e si diverte a contare, per esempio, quante ragnatele sono sul soffitto; chi finge di prendere appunti e scarabocchia un progetto di un nuovo organico; chi finge di prestar ascolto all’avvocato e pensa invece che la propria moglie, la sera innanzi, durante la rituale partita a tressette, ha fatto troppo la coquette con un giovane magistrato venuto non ha guari dalla capitale. Ma colui che maggiormente richiama l’attenzione è quel giudice là in fondo, dall’aspetto bonario, che sembra avere un curioso tic nervoso alla mano destra. Di tanto in tanto egli la chiude; indi comincia ad aprire il pollice, poi l’indice, e così via via fino al mignolo, per rinchiuderla di nuovo e ricominciare lo stesso giochetto, arrestandosi, per altro, la seconda volta, al medio. Evidentemente, anch’egli conta, e conta una cosa ripetuta otto volte. Che mai sarà? gli spropositi di sintassi che dice l’avvocato? i capelli rimasti sul cranio di un suo collega? gli anni di ferri che vuol regalare all’accusato? Ma davanti a lui è un pezzetto di carta, su cui egli, dopo aver contato, scrive qualche cosa. Diamo un’occhiatina indiscreta… Misericordia! sono ottonari, e che ottonari!”

“L’Incarriga [sic] il quale, come capita a molti, si credeva poeta, scriveva i suoi versi nei momenti di ispirazione che gli pigliavano sempre nelle sedute processuali della Gran Corte criminale di Salerno. Li scriveva forse senza deliberato proposito di darli alle stampe, ma aveva il grave torto d’infliggerne l’audizione agli amici”.

Uno di questi, Cesare Malpica, forse per atroce vendetta, le proclamò ricolme di tali e tante bellezze poetiche, che il giudice, persa la testa, le stampò.
Il volumetto, intitolato Opuscolo che contiene la raccolta di cento anacreontiche su di talune scienze, belle arti, virtù, vizj, e diversi altri soggetti, uscì a Napoli nel 1834”, con l’avvertenza: “L’autore ha inteso raccogliere in otto versi […] l’argomento di ogni anacreontica; ed à proccurato, per quanto è stato possibile, di spiegare la definizione, e le cose più notabili dell’argomento istesso; colla legge che la prima parola di ogni composizione è la stessa del soggetto; e ciò onde il Giovinetto abbia un’iniziativa alla recita”.


Sul retro del frontespizio, e firmato dall’autore, era l’avviso di proprietà letteraria, “proprietà quale forse altra mai fu altrettanto violata”.

Nel volume, facilmente reperibile in rete, e che l’Ingarrica affermava fosse ispirato al De rerum natura di Lucrezio, si possono trovare perle come queste:

L’ASTRONOMIA.
Stronomia è scienza amena,
Che l’uom porta a misurare
Stelle, Sol, e ’l glob’ Lunare,
E a veder che vi è la sù.

Quivi giunto tu scandagli
Ben le Fiaccole del Mondo:
L’armonia di questo tondo
Riserbata a Dio sol’è.

RELIGIONE.
Religione tu a noi insegni
Come adorasi il Gran Dio;
Ah potessi ognora io
Colla faccia in terra star!

Chi seconda i tuoi precetti
Rasserena mente e core,
Vive ben; nè mai timore
Della Morte debbe aver.

L’UBRIACO.
L’Ubriaco è l’uom schifoso,
Che avvilisce la natura;
Tutto dì la sepoltura
Per Lui aperta se ne sta.

Il far’ uso del liquore
Con dovuta temperanza
L’Estro sveglia, e con possanza
Spinge l’Uomo a poetar.

LA MORTE.
È la Morte la nemica
Dei bei giorni preziosi,
Che fruisce l’uom voglioso
Di Terren felicità.

Tal nemica a tradimento
Eseguisce il suo capriccio;
E per togliersi d’impiccio
Colla falce in testa da.

Gli esempi potrebbero continuare e pare impossibile pensare che simili versi fossero composti non per far ridere ma seriamente, e per di più da un magistrato. Scrive Americo Scarlatti:

Il volumetto delle poesie di Don Ferdinando Incarriga, giudice, ecc., ebbe un enorme successo! Le edizioni si succedevano l’una dopo l’altra, anche perchè la famiglia dell’autore, per sottrarre questo al ridicolo, ne comperava nascostamente le copie a dozzine dai librai; se non che Don Ferdinando, il quale, per questo grande spaccio del suo parto poetico, si convinceva sempre più di essere un trionfatore, prese tanto gusto al successo, nonché al denaro che gli procurava, che del suo libro stabilì un ufficio di vendita anche presso il cancelliere della Gran Corte!
Come accade a tutti i grandi scrittori, non mancarono al fortunato poeta gli imitatori, e furono innumerevoli. Napoli venne inondata di anacreontiche «due per quattro»; ma il guaio fu che i libercoletti che le contenevano venivano pubblicati tutti col nome di Don Ferdinando Incarriga, bastando tanto nome a farli comprare, se non altro, dai parenti di lui, che tentavano sottrarli al pubblico! Forse fu per questo che il poveruomo non venne destituito; tuttavia il volumetto dei suoi versi giovò perchè la sua carriera si arenasse. Mentre infatti questa, prima della loro pubblicazione, era stata assai rapida, dopo rimase lì, e più in su del grado di giudice l’Incarriga non potè arrivare”.

Pare che una delle parodie più spiritose, e anche più indecenti, alle anacreontiche ingarrichiane fosse dedicata al gioco del biliardo ma, purtroppo, non ci è pervenuta. Quelle che danneggiarono maggiormente il nostro giudice sembra fossero dovute a Francesco Paolo Ruggiero, che sarebbe poi diventato, anche se solo per un breve periodo, ministro del Regno delle Due Sicilie. Le poesie circolarono a lungo manoscritte, col titolo di Componimenti con i quali l’autore Don Ferdinando Ingarrica ha inteso dimostrare il suo dolore nella morte della defunta Regina e de’ suoi amici [sic] in otto ottave anacreontiche di due volte quattro versi, ed erano dedicate a Maria Cristina di Savoia, prima moglie di Ferdinando II, proclamata dai napoletani la Santa, morta dopo aver dato alla luce il principe ereditario, Franceschiello, il futuro Francesco II.
Una delle poesie ironizzava su un atto di generosità della defunta regina, che, nel testamento, aveva disposto che cinquanta giovanette, tra quelle rimaste orfane nell’epidemia di colera del 1835, fossero accolte nel monastero annesso alla Chiesa del SS. Cuore di Gesù alla via Salute:

Testamento è atto grande,
Che fa l’uom presso alla morte.
E chiamato il buon consorte,
La regina volle far.

In virtù di quella legge,
Son cinquanta sventurate
In un chiostro rinserrate
Notte e dì a salmeggiar.

Un’altra invitava a non prendersela coi medici che, secondo la voce popolare, avevano, per la loro insipienza, ammazzata la regina:

Medicin sebben è un’arte
Che può l’uom spesso salvare,
Pur se Iddio sel vuol chiamare,
Seguir deve il rio destin.

Fu Cristina inver curata
Con grand’arte e attenzione,
Lasciam dunque le persone
E accusiam il Dio divin.

Tra i versi di compianto non mancava un augurio al neonato principino:

O Francesco, sei piccino,
Ma mi sembri tanto grande
Che Golia, quel gran gigande,
È pigmeo, vicino a te.

Possa presto la fortuna
Farti ascendere sul trono,
Sarà, questo il più bel dono
Che può farci il nostro re.

F. Martorelli – Ritratto di Ferdinando II

L’auspicio di una pronta dipartita non risultò molto gradito a Ferdinando II, che era ben noto per essere estremamente superstizioso. Le cronache del tempo registrano non pochi aneddoti e scongiuri, definiti dallo storico Raffaele De Cesare come “salaci tanto da non potersi scrivere in un libro, per quanto caratteristici ed esilaranti”. Nonostante fosse molto devoto, i frati, in particolare i cappuccini, i gobbi, i calvi, gli uomini dai capelli rossi e le vecchie col mento aguzzo, erano per il re simboli di malaugurio. Allo stesso modo temeva il venerdì e il numero 13.
Solo a stento il poeta-magistrato riuscì a provare che quei versi, peraltro tra i più belli scritti a suo nome, non fossero opera sua e a evitare la collera reale.

Il parere della critica circa le poesie dell’Ingarrica, e sull’autore stesso, fu unanime. Ferdinando Martini, ministro delle Colonie e dell’Istruzione pubblica e Governatore dell’Eritrea dal 1897 al 1907 pronunciò la sentenza definitiva: “L’Ingarrica era una bestia”.
Al contrario il tipo di composizione poetica da lui inventato era destinato a un impensabile successo. Le strofette ingarrichiane o incarrighiane, perché il nome dell’autore fu spesso storpiato, si diffusero tra la gente comune e i comici ma trovarono interpreti anche tra noti intellettuali. Ingarrica aveva dato vita ad un genere di nonsense italiano, simile, sebbene meno elegante, al limerick anglosassone.
Caratteristico di queste “poesie” è l’uso dell’apòcope che, spesso, nelle false ingarrichiane, in quattro versi anziché otto, è impiegata alla fine dell’ultimo verso. Ad esempio:

LA SALIERA
La saliera è quella cosa
che assomiglia ad un occhiale.
Da una parte metti il sale,
da quell’altra poni il pep’.

Nel suo Dizionario moderno Alfredo Panzini afferma che tali versi furono definiti “maltusiani”:

Maltusiano. Si riferisce a chi, ad arte, limita la prole. Si avverta però che tale senso è abusivo perché Malthus non consigliò tali mezzi. Perciò qualcuno preferisce dire neomaltusiano, neomaltusianismo. Mussolini condannò il maltusianismo, perché vuole l’aumento e non la diminuzione degli italiani. Il verso maltusiano, cioè che si arresta alla fine come colui che adotta la regola, attribuita erroneamente a Malthus, per non procreare. Infatti si tratta di una quartina di ottonari con l’ultimo verso tronco ridicolmente… deriva dalle strofette ingarreghiane [sic]. Fu rimesso in onore dai futuristi (Lacerba, Almanacco purgativo, 1914)”.

Un’antologia delle ingarrichiane novecentesche meriterebbe non un articolo ma un volumetto.
Tra i primi personaggi illustri che impiegarono tale tipo di versi vi fu Carlo Emery, esimio professore di Zoologia, prima a Cagliari e poi a Bologna, che nel 1905, usando l’originale pseudonimo di Cocò (il Pappagallo), pubblicò il volume Zoologia popolare, ovvero la Bestiale Commedia: nuove dispense di zoologia per le sessioni straordinarie d’esami disposte in 100 strofe facili e amene.
Il professore intendeva ironizzare sull’abitudine di certi studenti d’imparare a memoria gli argomenti d’esame:

D’otto gambe provveduti,
hanno gli Acari tondetti
apparenza di ragnetti;
nëonati, hanno sei piè.

È la Zecca ben vorace,
ma sa a lungo digiunare;
può taluna inoculare
la malaria dei bovin
.

Ed il psórico Sarcòptide
quale esperto minator,
scava sotto l’epidermide
cagionando gran prudor.

Carlo Emery (1848-1925)

Un altro capitolo importante nella storia delle ingarrichiane viene scritto con l’Almanacco purgativo 1914. Al di là del titolo lassativo, l’opera è un documento importante nell’ambito del movimento futurista. Vi collaborarono Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà, Aldo Palazzeschi, Luciano Folgore, Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Il libro riportava sulla copertina una boccia di olio di fegato di merluzzo. I cosiddetti Maltusiani Domenicali prendevano di mira tutto e tutti, nella creatività/distruttività tipica del movimento futurista. I versi si direbbero oggi “politicamente scorretti”, ma risultano spesso piuttosto divertenti.
Uno dei Maltusiani più volgari dell’Almanacco, è indirizzato allo scultore liberty Leonardo Bistolfi, noto per i suoi monumenti funebri:

È Bistolfi quella cosa
che ti scoccia pure i morti,
piscia feti e caca aborti
sulla pace sepolcral.

Un altro bersaglio è la città di Venezia, in perfetta sintonia con uno dei Manifesti del Futurismo in cui si proclamava: “Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi. Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l’imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture”:

È Venezia quella cosa
che diguazza nella merda,
merda nuova, antica merda,
merda, merda all’infinit.

E poi ancora:

Parlamento è quella cosa
che ci vanno tutti quanti,
i più bischeri e birbanti
vanno pure al minister.

L’obelisco è quella cosa
che si drizza sulle piazze,
ne van matte le ragazze
perchè duro e volto in su.

Matrimonio è quella cosa
che si compie tra i due sessi,
piglian moglie solo i fessi
gli altri… ch’è un piacer.

Il museo è quella cosa
che t’appesta la nazione
ma ci campano benone
tarli, fessi e professor.

Come si vede è molto facile sfruttare il lato più comico di questo genere letterario che, non a caso, è spesso utilizzato da Ettore Petrolini:

È l’amore quella cosa
che platonico tu chiami
se la femmina che ami
ti vuol dar soltanto il cuor.

Petrolini è quella cosa
che fa ridere la gente.
Se gli piglia un accidente
non fa rider più nessun.

Ettore Petrolini

Umberto Eco si dedica al genere con la stessa vena ironica e autoironica:

Umberteco è quella cosa
che s’inventa un’abbazia
poi per colpo di pazzia
non ricorda manco il nom.

Berlusconi è quella cosa
che ci dà TV ogni sera
poi per non patir galera
organizza Forzital.

Tra gli infiniti altri autori che scrivono ingarrichiane, ce ne sono almeno un paio che proprio non ti aspetteresti.
La sera del 16 ottobre 1922, a Mosca, Antonio Gramsci scrive una cartolina alla cognata Eugenia Schucht; tra varie altre amenità, trovano posto due quartine ingarrichiane, che commentano le immagini disegnate di tre piramidi e di una sfinge:

La piramide è una cosa
che non è il piramidone,
si disegna sul cartone
verso l’una del mattino.

È la sfinge quella cosa
che la trovi nell’Egitto,
ma la trovi, se sei fritto,
a Ivanovo Vosnissiensk.

Anche il biblista Paolo De Benedetti è inaspettato autore di limerick, nonsense e ingarrichiane:

È Milano quel paese
tutto pien di ragionieri
messi a guardia dei forzieri
dove stanno i panettòn.

Il linguista Tullio De Mauro ha paragonato le ingarrichiane alle modeste prove poetiche offerte dalla canzone italiana, almeno fino agli inizi degli anni Sessanta, citando come esempio l’opera di Bixio e Cherubini, autori del Tango delle capinere, del 1928:

Hanno la chioma bruna,
hanno la febbre in cor.
Chi va a cercar fortuna,
vi troverà l’amor.

Ma già il fascismo aveva impiegato largamente versi alla maniera di Ingarrica, a partire dal suo inno Giovinezza, del 1925:

Non v’è povero quartiere
che non mandi le sue schiere,
che non spieghi le bandiere
del fascismo redentor.

Tutte le copie, che saranno sfornite di firma dell’Autore si avranno come contraffatte”.

Roberto Gerbi

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