Il Contastorie

Rubrica a cura di Roberto Gerbi
Il piacere di scoprire storie curiose, divertenti, drammatiche che un appassionato di libri ha ritrovato in biblioteche polverose, vecchie riviste e, qualche volta, in internet


UN AMORE ROMANO DI GOETHE

Nel 1786, Johann Wolfgang von Goethe ha 37 anni ed è uno scrittore già affermato per aver scritto “I dolori del giovane Werther”. Soprattutto però è diventato prima consigliere segreto e poi ministro di Carlo Augusto di Sassonia-Weimar-Eisenach, duca di un minuscolo stato tedesco, la cui capitale, Weimar, aveva al tempo seimila abitanti. Aveva ottenuto anche un titolo nobiliare, per cui poteva fregiarsi della particella “von” dinanzi al cognome plebeo. Gli incarichi pur prestigiosi impedivano però a Goethe di dedicarsi alla sua vera passione, la scrittura. Inoltre, sappiamo che soffriva da anni di una strana malattia che gli impediva, pena orrendi dolori, “di guardare un qualsivoglia autore latino, di considerare qualsiasi cosa rinnovasse in lui l’immagine dell’Italia”.

Già qualche anno prima, senza aver ancora mai messo piede nella nostra penisola, scriveva:

“Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?

Brillano tra le foglie cupe le arance d’oro,

una brezza lieve dal cielo azzurro spira,

il mirto è immobile, alto è l’alloro!

Lo conosci tu?

Laggiù! Laggiù!

O amato mio, con te vorrei andare!”

Il desiderio di tornare alle sue amate opere letterarie e quello di guarire dalla malattia per un paese mai visto ma molto sognato, portano Goethe a una decisione estrema. Il 3 settembre 1786, si trova a Karlsbad, oggi Karlovy Vary, nella Repubblica Ceca, città termale all’epoca molto di moda. Alle 3 di mattino, parte di nascosto, ben sapendo che altrimenti non l’avrebbero lasciato andar via. È una vera e propria fuga dal dorato carcere di Weimar. Nel suo “Viaggio in Italia” si legge:

Da solo, avendo per tutto bagaglio una sacca da viaggio e uno zaino di pelo di tasso, mi infilai in una vettura di posta e alle sette e mezzo, in una bella e quieta mattinata di nebbia, giunsi a Zwota. In alto c’erano nuvole lanose a strisce, più in basso pesanti. Mi parve buon segno”.

Usa un passaporto falso a nome di Philipp Möller. In una lettera al duca Carlo-Augusto del 2 settembre 1786, il giorno precedente la fuga, in cui lo avverte della sua decisione, scrive:

“Tutto questo e varie altre circostanze concomitanti mi spingono e mi costringono a smarrirmi in regioni del mondo ove nessuno mi conosca. Parto solo, sotto nome incognito, e da quest’impresa apparentemente stravagante mi riprometto il meglio possibile”.

Per molto tempo nessuno sa dove si trova, né la madre né i suoi amici più stretti hanno sue notizie. Soprattutto non ha sue notizie Charlotte von Stein, la donna cui è legato da dieci anni, e a cui durante il soggiorno in Italia scriverà centinaia di lettere.

I quasi tre anni che passa nel Bel Paese, stando alle sue ripetute confessioni, rappresentano per Goethe una autentica “Wiedergeburt”, una rinascita; gli permettono il pieno sviluppo come intellettuale ed artista. Sono l’occasione per visitare i luoghi lungamente sognati, i capolavori dell’antichità e del Rinascimento, per sviluppare amicizie con artisti e uomini di cultura.

Sono anche gli anni in cui nasce e cresce un diverso approccio verso i piaceri dei sensi:

Napoli è un Paradiso; tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso; non mi riconosco quasi più, mi sembra di essere un altro uomo”.

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein – Goethe nella campagna romana, 1787
Si noti che il pittore ha dipinto due piedi sinistri

 

In una lettera del febbraio 1787, accenna alla compiacenza delle modelle dei pittori romani, della quale avrebbe volentieri approfittato, se non per paura della sifilide, che “rende anche questo Paradiso rischioso”.

Nonostante reticenze e paure, a Roma allaccia una relazione, di cui non si trova nemmeno una parola nei suoi “Viaggi in Italia”.

In una viuzza nei pressi del Teatro di Marcello, a Roma, vi era un tempo la famosa osteria della Campana. La casa esisteva ancora agli inizi del Novecento e vi era ancora una lapide marmorea con una iscrizione in tedesco: “In questa osteria soleva Goethe convenire durante la sua permanenza in Roma negli anni MDCCLXXXVI-VII-VIII”. Gli ignoranti contemporanei non si sono vergognati a rimuovere e disperdere la lapide.

Non era soltanto l’eccellente vino dei Castelli e la compagnia degli amici ad attrarre Goethe nell’osteria, ma soprattutto la bellezza di Faustina, una giovane vedova, nipote dell’oste, che ispirerà al poeta le “Elegie Romane”.

Lo stanzone lungo, basso e buio di quell’osteria fu teatro di una delle scene più piccanti e al contempo più candidamente poetiche delle Elegie:

Ella parlava forte, ben più che romana non soglia;

mescea, volta a guardarmi; sgarrò, cadde il bicchiere.

Scòrse sul desco il vino, ed ella col dito sottile

segnò sul ligneo piano umidi cerchi intorno.

Intrecciò poi col mio il nome suo dolce;

lì fiso Io quel ditin seguia, e bene ella m’intese.

Svelta compose alfine il segno d’un cinque romano,

posevi un’asta innanzi; tosto, com’io lo vidi,

cerchi tracciò su cerchi a sperdere lettere e cifre.

Ma il prezioso quattro mi restò qui negli occhi.

Muto a seder rimasi, mordendomi il labro infocato,

qual per malizia o gioco, ma pur di voglia ardente.

Pria tanto tempo a notte! poi altre quattr’ore d’attesa!

Pare quasi di vedere la bella ragazza romana mentre parla ad alta voce e mesce il vino. D’un tratto, come distratta, ne versa sbadatamente un po’ sul tavolo, ma non è una distrazione, poiché tranquilla intinge il dito nel vino e traccia sul tavolo dei cerchi, formando due F, iniziali dei loro nomi: Faustina e Filippo (poiché come abbiamo visto, Goethe viaggia in Italia sotto nome di Philipp Möller, Filippo). Infine, rapida, segna sul tavolo un cinque romano preceduto da un’asta. È l’ora dell’appuntamento: le quattro di notte, secondo l’ora italica, le dieci di sera.

Come finì la storia? Potete immaginare come può finire la relazione tra un nobile tedesco, sebbene innamorato, e una popolana romana, per di più vedova e con un figlio. Finisce con un abbandono e molti rimpianti. In un colloquio con un amico, nel 1829, ricorderà: “Confrontando il mio stato d’animo di quando ero in Roma, non sono stato, da allora, mai più felice”.

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein – Goethe alla finestra, Roma

Finirà male anche con la fidanzata, Charlotte von Stein, con cui Goethe interruppe la relazione dopo il suo ritorno a Weimar nel 1788. Non sarà un caso che subito dopo iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò nel 1806 pur avendone avuto già nel 1789 un figlio: August. Questi, sono i casi della vita, morirà proprio a Roma nel 1830, e vi è sepolto, nel Cimitero acattolico.

Quanto a Goethe, tornerà altre due volte in Italia, ma non vi troverà la stessa magia. In una poesia si può leggere ancora il rimpianto di quell’Italia e di quella giovane donna abbandonata:

“L’Italia è ancora come la lasciai,

ancora polvere sulle strade,

ancora truffe al forestiero,

si presenti come vuole.

Onestà tedesca ovunque cercherai invano,

c’è vita e animazione qui,

ma non ordine e disciplina;

ognuno pensa per sé, è vano,

dell’altro diffida,

e i capi dello stato, pure loro,

pensano solo per sé.

Bello è il paese! Ma Faustina, ahimè,

più non ritrovo.

Non è più questa l’Italia

che lasciai con dolore”.

Roberto Gerbi

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