Durante il Settecento sono decine di migliaia i ricchi stranieri, soprattutto giovani, che intraprendono lunghi viaggi per l’Europa al fine di perfezionare le loro conoscenze e le loro capacità. È quello che chiamiamo il Grand Tour, da cui non a caso, deriva il termine turista.

L’Italia ne rappresenta una meta fondamentale, grazie all’eredità di Roma antica, ai monumenti, alle bellezze naturali, ma anche a quella delle cortigiane, soprattutto veneziane: il turismo sessuale non è certo una novità dei nostri tempi.

Tra le città italiane più visitate vi era Genova, cui i turisti giungevano via mare, dalla Francia oppure attraverso il passo della Bocchetta, la cosiddetta Via Cambiagia. Questa, che portava a Novi Ligure attraverso Campomorone, era celebre per le sue asperità, soprattutto prima degli ammodernamenti apportati nel 1771 dal doge Giovanni Battista Cambiaso. Charles De Brosses, che la percorre nel 1739, la descrive così:

“È una pianura dove non si vede la minima traccia di strada; soltanto ciottoli e frammenti di roccia grossi come una testa. Inoltre, le carrozze italiane, prive di molle, sono, piuttosto che vetture, un’onesta invenzione per torturare i viaggiatori. Così siamo arrivati alla frontiera col Milanese più sfiniti che se avessimo ricevuto cento colpi di bastone. Questo tratto è considerato il più duro di tutt’Italia”.

Le strade lungo la costa erano poco più che sentieri, percorribili solo a piedi o a dorso di mulo.

Genova, come dicevamo, era una meta comune per i turisti settecenteschi, anche se non era altrettanto amata. In particolare, non era apprezzato il carattere mercantilistico della città e dei suoi abitanti; inoltre veniva spesso ricordato il pesante trattamento fatto subire a Savona e al suo porto nel 1528.

Tra i vari turisti settecenteschi, uno dei principali detrattori dei genovesi è Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède, più conosciuto come Montesquieu, nome di un altro suo possedimento. Quando giunge in Italia, nel 1728, è già un personaggio famoso: le sue “Lettere persiane” hanno avuto un enorme successo a livello europeo e viene quindi accolto con tutti i riguardi nei salotti veneziani e milanesi. A Milano ha anche l’occasione di innamorarsi di una giovane nobildonna, Maria Archinto, la bella moglie del principe Antonio Trivulzio, proprio il fondatore del famoso Pio Albergo milanese.

L’accoglienza che riceve a Genova, dove giunge il 9 novembre del 1728, è molto meno calorosa e questo avrà certo delle conseguenze col giudizio che esprime sulla città.

La prima impressione è positiva:

“La città, vista dal mare, è molto bella. Il mare entra nella terra, e fa un arco, intorno al quale è la città”.

Lo scrittore ha occasione di visitare il giardino del principe Doria, in mezzo al quale “c’è uno specchio d’acqua degno di Versailles” e numerose chiese, tra cui quella dell’Annunziata, “la più bella di Genova”, San Siro, Santo Stefano.

“Il Palazzo del Doge comprende anche le sale in cui si riuniscono i Consigli e l’arsenale. Queste sale sono lontane dall’essere belle come quelle di Venezia. In una ci sono tre quadri del Solimena. Quella dove si riunisce il Gran Consiglio è stata dipinta da Franceschini, di Bologna.

Il 12 novembre, giorno in cui andai a vedere questa sala, la Signoria riunita aveva voluto vedere trentatré turchi che le sue galee avevano catturato in una peota, per godere del piacere della vittoria. Più di 20.000 genovesi erano accorsi a questo spettacolo; e pensai che sarei soffocato, essendo trascinato da un capo all’altro del cortile: questa vittoria poteva costarmi molto cara”.

Nei giorni seguenti visita Savona, Vado, Spotorno, Noli e Finale, spostandosi su una feluca.

Montesquieu lascia Genova il 20 novembre, con una pessima opinione dei suoi abitanti: “Tutti i nobili di Genova sono dei veri “mercadans”. Ci sono dei privati ricchi di parecchi milioni, perché non spendono”. E, ancora:

“I genovesi non sono assolutamente socievoli. Questo carattere deriva più dalla loro suprema avarizia che non da un umore scontroso: perché non potete credere a che punto arriva la parsimonia di quei prìncipi. Al mondo non c’è niente di più bugiardo dei loro palazzi. Voi vedete una casa superba, e dentro una vecchia serva, che fila. Se nelle case più illustri vedete un paggio, è perché non c’è nemmeno un lacchè. A Genova, invitare qualcuno a pranzo è cosa inaudita. Quei bei palazzi sono in realtà, fino al terzo piano, magazzini per le loro merci. Tutti commerciano, e il Doge è il primo mercante. Tutto ciò li rende gli animi più bassi al mondo, sebbene i più vani. Hanno palazzi non perché spendano, ma perché il paese fornisce loro il marmo. È come ad Angers dove le case hanno i tetti d’ardesia. Hanno anche piccoli casini lungo il mare, molto graziosi. Ma quello che li rende belli sono la posizione e il mare, che a loro non costano nulla”.

In più occasioni sottolinea l’avarizia dei genovesi, arrivando ad affermare che “sono in Italia una particolare tribù di giudei”. Inoltre “sono i soli italiani che non hanno mai avuto alcun gusto per le arti, né per le cose buone. L’avarizia fa questo effetto”.

“Non è una grande fortuna essere un abitante di questa città. Innanzitutto, il popolo è oppresso dai monopoli sul pane, sul vino e su tutti i commestibili. È la Repubblica stessa che vende queste merci. La punizione per i crimini è così male ordinata che è una disgrazia minore aver ucciso un uomo che aver frodato un’imposta. Ci sono 800 o 900 nobili, che sono tutti dei piccoli sovrani. Soprattutto, i tribunali sono i più iniqui del mondo. Non esiste alcuna difesa contro il potere d’un nobile che attenta ai tuoi beni, al tuo onore o alla tua vita. Se si avesse la sfortuna di offendere qualcuno di loro, si sarebbe puniti senza misericordia. Ma la cosa è molto diversa quando si uccide o si deruba un semplice cittadino. Questa detestabile differenza porta il popolo alla disperazione e non ho visto un solo genovese che non odia i propri sovrani”.

La verità è che Montesquieu si era annoiato ma soprattutto che l’accoglienza che gli era stata riservata era in contrasto con le feste, i riguardi e gli omaggi che aveva avuto nelle altre grandi città italiane che aveva visitato.

Al momento d’imbarcarsi per lasciare la città, nasce così una satira, di cui fa dono ai suoi amici, a condizione che non la rendano pubblica. Come lui stesso afferma è “une plaisanterie faite dans un moment d’humeur”, “uno scherzo fatto in un momento di cattivo umore”, ma ciò non toglie nulla alla ferocia di questi “Addii a Genova”:

“Addio, Genova detestabile,

addio soggiorno di Plutone,

Se il Cielo mi è propizio,

non vi rivedrò mai più.

Addio borghesia e nobiltà,

che non ha altra virtù

d’una inutile ricchezza!

Non vi rivedrò mai più.

Addio, superbi palazzi,

dove la noia, per preferenza,

ha prescelto residenza;

non vi rivedrò giammai. […]

Ma un vento più favorevole

si presta al mio volere;

niente è paragonabile

al piacere di lasciarvi”.

Roberto Gerbi

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