Friedrich Dürrenmatt “Minotauro” Ed. Adelphi

Il Minotauro è ciò che, con superficialità e noncuranza, si definisce un mostro. Nato dal sacrilego amplesso fra una donna e un toro, partecipa delle due nature, quella umana e quella bestiale, ma quest’ultima prevale perché tale è la sua testa. Il seguito del mito è noto, il Minotauro imprigionato nel labirinto costruito da Dedalo, ogni anno, orrendamente, divora sette fanciulli e sette fanciulle che Atene è costretta a fornirgli. Il mito naturalmente è molto più complesso e articolato; ai fini della recensione, tuttavia, quel che si è detto è sufficiente per addentrarsi nell’analisi del lavoro di Durrenmatt. Si tratta di un racconto che rovescia completamente la prospettiva della narrazione mitica che si pone, ovviamente, dalla parte civile e razionale, fino all’uccisione della bestia per mano dell’eroe Teseo, liberatore della sua città dall’obbligo dell’atroce tributo. Durrenmatt entra nel labirinto e pone il lettore di fronte al Minotauro, anzi ai Minotauri perché la vertiginosa struttura della prigione che gli impedisce di uscirne, non è dovuta tanto all’intrico dei corridoi, quanto alla presenza di innumerevoli specchi che rimandano all’infelice, all’infinito, la sua immagine. Qualunque mossa compia, qualunque espressione assuma, quella moltitudine di creature, li replica senza sosta. Ma egli non li riconosce come immagini di sé, li crede altri, se ne reputa il re perché quelle altre creature danzano con lui, egli non è più solo. All’arrivo della fanciulla danza con lei e con le sue immagini, ma nel possederla la uccide, innocentemente perché non sa di farlo. Teseo, ingannevole, camuffato con una testa di toro, pugnala l’innocente Bestia che vuol danzare con lui, in amicizia, perché lo crede un suo simile, e non si sente più solo. Questo racconto di pochissime pagine arricchisce il mito originario di una ulteriore, prismatica, simbologia, (sta al lettore indagarla) un raggio della quale può essere quello della coscienza di sé, ciò che ci fa umani, e del desiderio di rispecchiarsi non in una gelida lastra riflettente, ma in un nostro simile.

Grazia Tanzi

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