Di Stefano Pignataro

Labirinti. Omaggio ad Italo Calvino” (Paesaggi di Parole); con la sua opera Sara Carbone, docente e saggista, attua un’analisi comparatistica dell’opera calviniana attraverso un percorso a temi ed a tracce scomponendo e ricomponendo i molteplici scritti dell’autore ripresentandoli in un “Cubo labirinto” in cui la studiosa, ma soprattutto l’osservatore trova molteplici tracce e percorsi su cui soffermarsi ed analizzare criticamente lo scrittore di cui l’anno in corso celebra il centenario dalla nascita. L’opera ha già avuto diverse presentazioni, dal Salone del Libro di Torino alla Fiera del Libro di Napoli,  al Festival “Più Libri, più liberi” di Roma ai lcali di Via Gramsci di Battipaglia (luogo di una Mostra dal titolo “Figure di Italo Calvino” dedicata allo scrittore che sarà allestita anche a Castiglione della Pescaia al Festival Salerno Letteratura di Salerno

– La sua ricerca spazia ed analizza in maniera approfondita l’opera calviniana da un punto focale “labirintico”, ponendo come punto di confronto la sua ultima opera delle “Lezioni Americane” come possibile “lettura” delle altre sue opere. Un’opera, quella di Calvino, che pur nella sua complessità e diversità, pone l’elemento localistico molto sviluppato ed interessante. Negli anni, Calvino e’ sempre stato legato alla sua Liguria, alla città di Sanremo. Quale elemento, pensa, sia interessante da studiare nell’opera calviniana riguardo la sua attenzione alla sua terra d’origine?

Intervengono, nell’idea che matura di uno scrittore con il passare del tempo, non solo le suggestioni dirette prodotte dalla lettura dei suoi testi ma si impara a figurarselo nella propria mente anche attraverso le sollecitazioni di chi lo ha conosciuto e scritto di lui. Pietro Citati, che inconsapevolmente offriva un titolo all’opera postuma di Italo Calvino, Lezioni americane, ha dominato con le sue testimonianze il mio lavoro di omaggio allo scrittore sanremese. Tra queste, una in cui ricorda come era nata la sua amicizia con Calvino e quali cose avevano alimentato e cementato il loro sodalizio umano e letterario. «Italo Calvino e io avevamo in comune lo stesso paesaggio: la Riviera di Ponente (…) le scogliere a picco sul mare, colline di pini e di ulivi (…) e, poi, appena dietro gli ulivi, i gerbidi e il misterioso Appennino (…). Appena superate le porte del paese, c’erano le fasce » scrive il critico fiorentino   che   incontrò   per   la   prima   volta   Calvino   quando   questi   aveva   24   anni.  Credo   che l’elemento interessante dell’opera calviniana rispetto alla sua terra d’origine sia proprio, sulla scia della riflessione di Citati, la rapidità del racconto, la sua brevità, la “miniatura” di tutte le sue   narrazioni,   la   misura   della   scrittura   che   segue   il   metro   del   “piccolo”,   dell’esiguo,   dello “stretto”. Il “paesaggio mentale” di Calvino, che si traduce sulla carta in forme narrative anguste per cui lo scrittore deve lavorare di fino per costruire in poco spazio «allusioni e prospettive e architetture   labili   e   infinite»,   è   quello   delle   “aride   e   pietrose”   colline   liguri   che   i   contadini organizzavano in fasce, in piccole strisce di terra, dove poter mettere a coltura «qualche pianta di pomodoro, di fagiolini e di zucca.» Calvino, come i contadini liguri, ha lavorato su pochi ettari di terreno praticabile di carta stampata e, proprio come loro, ha cercato di sfruttare al massimo questa   una   “superficie”   modesta.   La   laboriosità   dei   contadini   liguri   che   si   ingegnavano   per portare l’acqua nelle   fasce  messe a coltura è il portato ancestrale in uno scrittore altrettanto laborioso e instancabile che fa dell’“essenziale” proprio la cifra della sua «parabola morale» di scrittore e intellettuale. Cesare Pavese, scrisse su L’Unità nel 1947, a proposito di Calvino che questi   cercava   di   mettere   nelle   parole   tutta   la   vita   che   si   respira   a   questo   mondo, comprimendola e battendola con un martello per contenerla. Non  ci   sarebbe   stato   alcun   Calvino   narratore   “rapido”   e   “leggero”,   dalla   “mente   agile, innamorata   della   linea   retta”,   pervaso   da   una   “elegante   capacità   di   stilizzazione”,  se   questi, ancora   seguendo   le   suggestioni   di   Citati,   non   fosse   appartenuto   alla   Liguria   “mitomane, esuberante   e   massonica”   della   Riviera   di   Ponente.   Nessuno   avrebbe   mai   letto   di   Cosimo Piovasco di Rondò che, tanto era piaciuto questo a Elio Vittorini, era entrato in contatto con la massoneria   e   che,   come   il   suo   autore   ligure,   «guardava   lo   spettacolo   del   mondo   sempre   di sbieco   o   dall’alto   di   uno   dei   suoi   alberi».   Guardare   di   sbieco   per   aumentare   la   superficie praticabile.   Guardare   dall’alto   come   il   proprio   autore,   originario   di   una   Sanremo   che «immaginava di essere stoica e geometrica». Non ci sarebbe mai stato il Calvino delle  Lezioni americane quello   della   maturità,   che   sembrava   essersi   ritirato   dal   mondo   nella   pace   di Roccamare, un luogo che «ripeteva il paesaggio ligure. (…) una striscia di sabbia chiusa tra due promontori, una pineta, una macchia, un piccolo giardino dove tutto sembrava miniaturizzato».

Senza   il   lascito   culturale   della   propria   terra   d’origine,   all’insegna   della   misura,   non   sarebbe vissuto un autore immenso e maestosamente cosmopolita che  riconobbe come sua missione intellettuale quella di rendersi progressivamente invisibile, fino a scomparire.

Sara Carbone

Negli anni Cinquanta la Sanremo di Calvino stava scomparendo. Il parco di Villa Meridiana, che ospitava piante e fiori di tutto il mondo – opera di decenni di lavoro e di ricerche del padre e della madre – era stato cementificato.. L’atmosfera dei tempi della Resistenza era scompar­sa anch’essa come non fosse mai esistita. Negli anni Sessanta, Calvino concepisce la “Trilogia dei nostri antenati“, in particolare ed in particolare nel Barone Rampante, sfugge al conformismo inventando un personaggio che vive sugli alberi per dedicarsi alla Letteratura. Possiamo essere accanto ad un’esperienza autobiografica per rispondere ad un disagio di quegli anni?


Sulla dimensione autobiografica della “Trilogia dei nostri antenati” e de “Il barone rampante” nello   specifico,   molto   si   è   scritto.   Andando   un   po’   indietro   negli   anni,   mi   viene   in   mente,  a esempio, quella biografia “ragionata” dedicata a Calvino sul finire degli anni Novanta, di Silvio Perrella, il quale, accennando alla “passionalità verticale” di Cosimo che si concede «il lusso di guardare   il   mondo   alla   rovescia»,   raccontava   la   reazione   di   un   Calvino   che,   deluso dall’esperienza di militanza nel Partito comunista italiano, ne ritirava la tessera di iscritto. Ma già   Perrella   non   circoscriveva   la   sensazione   di   disagio   provata   dallo   scrittore   in   quegli   anni , soprattutto a seguito degli accadimenti in Ungheria, a una disillusione politica. Cosimo che sale sugli   alberi   non   può   essere   una   immagine   –   calco   di   Calvino   che   ritira   la   tessera   di   partito; andavano coagulandosi diversi fattori, storici e personali di scrittore, che si tradussero poi nel malessere, nell’insofferenza manifestati in modo evidente dai protagonisti della trilogia verso una realtà «dove si verificano le cause e non gli effetti».  Nell’agosto del ’56, un Calvino reduce dalle   “Fiabe   italiane”,   da   un   progetto   editoriale   commissionato   dalla   casa   editrice   Einaudi, scriveva alla madre  Eva Mameli, da Praia,  in Calabria,  pregandola di non dare a nessuno,  tra coloro che lo avessero cercato, il suo indirizzo, neppure alla stessa casa editrice torinese perché non   voleva   che   nessuno   lo   importunasse   con   «questioni   editoriali   o   altre   grane»   ma, soprattutto,   perché,   avendo   finalmente   trovato   tempo   e   calma,   aveva   ripreso   a   scrivere   per conto suo. Indirettamente Calvino stava lamentando di aver vissuto un periodo in cui impegni editoriali di scrittore e divulgatore culturale, gli avevano sottratto tempo ai suoi appuntamenti privati con la scrittura, alla sua fascia di terra da cui ricavare il maggior raccolto possibile. Non molti giorni dopo, il 12 settembre dello stesso anno, scriveva da Torino a  Leonardo Sciascia, comunicando   che   quello   era   per   lui   «un   tempo   di   ripensamenti   gravi».   Calvino   andava maturando una visione delle cose e, con essa, un disagio profondo, molto più complesso che una nuova visione della politica  stricto sensu.  

. Sono le parole indirizzate a Franco Fortini il 28 maggio   del   1957,  a   restituire   la   misura   di   cosa   andava   agitando   i   pensieri   dello   scrittore.

«Viviamo un’epoca buia, non c’è assolutamente nulla che vada bene e non c’è da consolarsi che nel   pensiero   della   brevità   della   vita.   In   questa   situazione   io   sto   benissimo,  devo   dire   e   mi abbandono finalmente a una totale misantropia che scopro corrispondere pienamente alla mia vera natura». Credo che questa lettera spieghi molto il Calvino di allora e il Calvino che sarebbe venuto dopo. Annunciato al Fortini un nuovo libro – Il barone rampante – gli comunicava la sua convinzione   che   più   le   cose   del   mondo   andavano   male   e   meglio   si   scriveva.   La   Trilogia,   sì, esprime il disagio che Calvino maturava in quegli anni; Il barone rampante segnava l’inizio di quella parabola a scomparire, di cui si diceva prima – concetto sottolineato anche nella recente biografia   dedicata   a   Calvino   da   Antonio   Serrato   Cueto   –   e   di   cui   lo   scrittore   diventava protagonista in quegli stessi anni che gli riservavano “visibilità” e riconoscimento sociale.

-“Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se è davvero esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello con suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto di nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi si intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.”

 Sanremo non e’ piu’ riconsciuta da Calvino, diventa testo fertile per un racconto, elemento immaginifico. Forse una Sanremo non riconosciuta più per via di quella “trasformazione” edilizia?


Nel 1983, Calvino scrive a Maria Corti che la sua San Remo continua a venire fuori nei suoi libri; naturalmente  una San Remo molto diversa  da quella  che poteva apparire negli anni Ottanta, magari quella di trent’anni prima, o meglio ancora, come specifica alla sua destinataria, quella di   sessanta   anni   prima   cioè   quella   di   quando   era   bambino.   Se   si   riporta   il   discorso all’argomento appena affrontato ossia il senso di disagio che pervade l’animo di Calvino e che traspare nella Trilogia, non risulta difficile aggiungere ai motivi del suo malessere quello di una speculazione edilizia dal ritmo spinto e incalzante propria di quegli anni, che trasforma i luoghi della   sua   infanzia   in   «parallelepipedi   e   poliedri»   di   cemento.   Il   1957   è   l’anno   della pubblicazione   de   “Il   barone   rampante”   ma   è   anche   l’anno   in   cui   Calvino   si   impegna   nella stesura  de  “La  speculazione  edilizia”   che  vedrà  la  luce  l’anno   successivo.  Al  critico  letterario Aldo   Camerino, Calvino   lo   annuncia,   in   una   sua   missiva,   come   un   «racconto   psicologico   –saggistico   contemporaneo»   col   quale   vuole   «sgranchirsi   le   gambe   dopo   il   soggiorno arboricolo».  Tra il romanzo del ’57 e quello del ’58 c’è una continuità narratologica per quanto riguarda i protagonisti: Cosimo Piovasco di Rondò e Quinto Anfossi sono entrambi campioni di una fedeltà   a sé   stessi  nel  raggiungimento  di  un  fine;   tutti   e due  si  impongono   un  codice  di comportamento a cui restano devoti fino alle estreme conseguenze. Non può dirsi lo stesso sul versante dell’ambientazione e del contesto in cui operano i personaggi: la città “arborea” del barone, omaggio ai genitori e metafora dei luoghi d’infanzia dello scrittore, cedono il passo a uno  spazio urbano  in cui la cementificazione  è  stata messa a sistema.  Le città che  frequenta Quinto Anfossi sono gli spazi del Calvino adulto, di quello della svolta e del disagio collocato in modo semplificativo nell’anno ’57. Quinto è un intellettuale della Riviera, infatti, che per fare cultura, però, deve spostarsi nelle città – per dirla ancora con le parole di Perrella – «dove si fa cultura» e cioè Milano e Roma. In questo romanzo non resta nulla della Sanremo “arborea” del piccolo figlio di scienziati; Quinto, infatti, durante uno dei suoi ritorni a casa, decide di sfruttare una parte del terreno di famiglia per costruirvi sopra ed entra in contatto con la figura subdola, strisciante   e   melliflua   del   costruttore   Caisotti   che   viene   a   incarnare   tutta   la   classe   degli speculatori edilizi della fine degli anni Cinquanta.

Lei, nel suo Cubo-Labirinto”, squadra l’opera di Calvino disegnando una “mappa” delle opere secondo periodi, temi e concetti letterari adoperando anche dei colori. Il metodo del labirinto che Lei ha utilizzato sarebbe stato possibile adoperarlo anche in ambito comparatistico con altri scrittori?


Se ci rifacessimo semplicemente a quanto affermato da Calvino nel suo intervento “La sfida al labirinto”, dove lo scrittore ligure eleggeva l’immagine del labirinto a metafora gnoseologica del reale e della contemporaneità, dovremmo provare ed essere in grado di “rappresentare” non dico tutti, ma almeno buona parte degli autori del secondo Novecento, attraverso uno schema labirintico, tentacolare e senza vie d’uscita. Ma così, istintivamente, mi vengono in mente due nomi: Carlo Emilio Gadda e Jorge Luis Borges.

Di un Gadda “labirintico”, che concepisce il mondo come un “garbuglio”, una “matassa”, un “gomitolo” ne parla proprio Calvino nella lezione americana della  Molteplicità.

 L’immagine del labirinto sarebbe perfetta per rappresentare l’opera dell’ingegnere milanese che si era dato alla Letteratura col proposito di rappresentare una realtà contemporanea complessa, agitata, e che   si   riproponeva   di   farlo   sia   scrutandola   da   più   punti   di   vista-   possibilità   che   il   labirinto offre-,   sia rispondendo  a  una  «nevrotica  ossessione  di  analisi  e  di ordine»,  come scrive  a  tal proposito   Giulio   Ferroni,   –   possibilità   anche   questa   offerta   dai   percorsi   obbligati   che impongono i sentieri vincolanti del labirinto. L’immagine di uno scrittore che nutre l’ambizione enciclopedica   di   catalogare   la   complessità   attraverso   una   conoscenza   sistematica   del   reale appartiene tanto a Calvino quanto a Gadda.

Quando dico Borges, è perché mi viene in mente  Il giardino dei sentieri che si biforcano pubblicato nel 1941 e, successivamente, diventato una delle due sezioni di Finzioni del 1944.

Oltre a condividere con Calvino il gusto per la “brevità” del racconto, della condensazione del dettato, Borges, e qui cito proprio Calvino, «in ogni suo testo, per ogni via (…) viene a parlare dell’infinito, dell’innumerabile…». Anche Borges, in particolare quello di Finzioni concepisce la Letteratura come gioco dell’immaginazione, come capacità moltiplicatrice di realtà che, però, è sempre   posta   sotto   il   rigoroso   controllo   della   ragione.   Borges,   al   pari   di   Calvino,   è quell’imperfetto bibliotecario che si trova di fronte al magma del reale, all’intero universo «con

la   sua   elegante   dotazione   di   scaffali»   che   non   può   che   essere   opera   di   un   dio,   come   scrive appunto l’autore argentino nel 1941. Borges, per rappresentare la medesima idea calviniana di complessità   del   reale,  sostituisce   all’immagine   del   labirinto quella   altrettanto   potente  e significativa della .biblioteca.

La scomposizione testuale calviniana, propria, forse, dell’ultimo Calvino, si lega maggiormente, secondo Lei, ad un’esigenza di caos o di schematizzazione semantica dell’autore?


L’ultimo   Calvino   che,   nel   mio   lavoro   ho   associato   al   colore   verde   –   il   colore   che   secondo Kandinskij   non   si   muove   in   alcuna   direzione,   non   desidera   nulla,   non   aspira   a   nulla   ma   è elemento immobile, soddisfatto di sé, limitato in tutte le direzioni” – e al romanzo “Se una notte d’inverno   un   viaggiatore”,   è   l’autore   dell’iper-romanzo   o   del   metaromanzo   ossia   colui   che padroneggia, manipola sia l’opera letteraria sia chi la produce e, dunque, sé stesso. È il Calvino che   si   racconta   nella  “lezione   americana”   della   “Molteplicità”,   è   il   Calvino   che   finalmente   ha imparato ad amare il Gadda della molteplicità appunto e la sua verbosità. È il Calvino che ha accettato   la   realtà   come   “garbuglio”,   come   si   diceva   poc’anzi   di   Gadda,   e   che   ha   accettato, ancora come Gadda, di rappresentarlo nella sua “inestricabile complessità.” Si direbbe che è un Calvino finalmente libero dalla pretesta di scientificità paterna e dall’ossessione classificatoria materna, dal progetto architettonico delle fiabe italiane che costituiscono una vera e propria operazione editoriale ragionata   e     “commissionata”,     dallo     schema     prepotentemente classificatorio con il quale Marco Polo racconta le sue città. Eppure Calvino non ha ceduto per nulla al Labirinto, alla complessità del reale che non ammette via d’uscita. In quel lettore che ha comprato   l’ultimo   romanzo   di   Calvino   e   che,   adesso,   deve   cercare   la   posizione   giusta   per poterlo leggere, ma si trova di fronte a un campionario vastissimo di soluzioni per approcciare alla   lettura,   c’è   la   sintesi   di   uno   scrittore   che   per   tutta   la   vita   si   divide   tra   esigenze   di schematizzazione, classificazione e rigore nella tessitura di trame narrative e riconoscimento dell’indispensabile forza del caos, della fertile ricchezza del disordine, in un eterno peregrinare che   ha   paura   del   centro   e   descrive   cammini   concentrici,   periferici   e   centrifughi   come   i   suoi personaggi, da Marcovaldo a Palomar.

Stefano Pignataro

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