GENOVESE E ITALIANO, LINGUE A CONFRONTO

La singolar tenzone si concentra su due diversi casi lessicali e partiamo subito dal primo prendendo in esame la parola parrucchiere. Termine italianissimo e comunissimo, che se andiamo però ad analizzare nella sua essenza ci accorgiamo quanto sia improprio. Infatti non credo che ci sia ancora qualcuno che vada dal parrucchiere per farsi assestare la parrucca ma piuttosto per farsi acconciare o tagliare i capelli. Mentre invece c’è senz’altro chi va ancora da-o barbê (corrispettivo genovese di parrucchiere) a farsi fare la barba. A dire il vero sarebbe più opportuno chiamarlo cavellê perché la sua attività consiste più che altro nel tagliare i capelli, ma il termine non è mai stato coniato (lo stesso vale per la lingua italiana.) e quindi, come dire, abbiamo le mani legate.

Punteggio parziale 1 a 0 per la lingua genovese.

Il secondo caso riguarda quell’oggetto che si usa quando piove, che in italiano suona come l’ombrello mentre in genovese risulta essere o pægua. Non so quanti di voi abbiano mai fatto caso a questo particolare ma, secondo la lingua italiana, quando piove si esce di casa con un oggetto che è destinato a fare ombra mentre, in genovese, si va fuori con qualcosa che ripara dall’acqua: infatti si esce col molto più appropriato pægua.

Punteggio parziale 2 a zero per la lingua genovese.

Attenzione però (è un po’ come se la lingua italiana avesse richiesto l’intevento del VAR), perché comunque il genovese rimane nel vago e usa sì un para acqua, ma non specifica quale acqua. È chiaro che si tratta di quella piovana, ma il genovese non è in grado di dirlo perchè nella sua lingua la parola pioggia non esiste e la chiama semplicemente ægua.

Il VAR quindi annulla il punto del genovese e il risultato rimane sull’ 1 a zero.

Ed ecco che ora l’italiano avrebbe l’opportunità di portarsi sul pari sostituendo il termine ombrello con paracqua ma, inspiegabilmente, non lo fa (è un po’ come se avesse sbagliato un calcio di rigore), e continua imperterrito a uscir di casa con l’ombrello.

Il punteggio, quindi, resta fermo sull’1 a zero per il genovese.

Partita finita? No, neanche per sogno, in quanto si devono giocare i minuti (si fa per dire) di recupero e la lingua italiana chiama in aiuto addirittura un Santo, e che Santo! Nientepopodimeno che… San Pietro! E cosa succede? Che il genovese viene trovato in fallo proprio su questo nome, che traduce scelleratamente con San Pê.

“Ma che c’è di strano?” dirà qualcuno. Be’, lo strano è proprio il corrispettivo genovese di Pietro, universalmente (si fa per dire) riconosciuto come quando di parla del Santo,che peròin genovese indica il piede: mai esistito un San Piede!! Come possiamo considerare questo errore che non è né di grammatica né di sintassi ma di contenuto?

Un errore da scontare, e quindi la lingua genovese viene  penalizzata di un punto e il punteggio adesso è di parità.

NB Per chi non avesse tenuto i conti la partita è finita zero a zero.

E vissero tutti felici e contenti!!

Oh lidin, oh lidin, oh lidena

sabbo a Camoggi domenega a Zena

oh lidin, oh lidin, oh lidà

sabbo a Camoggi e domenega a Pra’!

Allegri!!

Nino Durante
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