FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi


Come si è visto negli articoli precedenti, le parolacce vantano un illustre pedigree e, ben lungi dall’essere una banale manifestazione di maleducazione, si portano dietro motivazioni che affondano negli strati più arcaici della nostra psiche. 

Per esaminare tutto questo siamo andati lontano, ebbene ora è il momento di guardare un po’ quel che accade in casa nostra, nella nostra lingua: il zeneise.

Il mio vademecum in questa esplorazione sarà un’opera ormai classica nello studio di questo particolare aspetto del dialetto: E parolle do gatto di Michelangelo Dolcino, il cui illuminante sottotitolo recita: dizionario genovese-italiano di termini, insulti, locuzioni e proverbi assolutamente sconvenienti.

I Genovesi, e i Liguri in generale, come tutte le popolazioni antiche e moderne, hanno un nutrito ed espressivo lessico scurrile che, oltre a quello propriamente linguistico, presenta un innegabile interesse storico. Infatti, molti termini e locuzioni qui riportati fanno riferimento ad usi e costumi del passato, preziose testimonianze di un mondo scomparso. Cito dalla prefazione.

Oreste Marcoaldi[1] scriveva nel secolo scorso che i Genovesi- anzi, i Liguri- molto raramente usano parolacce, “altrove tanto frequenti”. Quella dell’illustre etimologo è una cospicua bugia. I Genovesi – anzi, i Liguri – sempre hanno bestemmiato poco, ma quanto a parlar “grasso” possono forse rivendicare una sorta di primato nella penisola. […] Castigati, piuttosto, furono sempre gli autori dei nostri dizionari dialettali. Anche i più recenti omettono accuratamente ciò che è possibile reperire nei vocabolari italiani ad uso scolastico.

L’autocensura ha di fatto cancellato importanti testimonianze della parlata popolare in nome di un perbenismo un po’ ipocrita. Per queste ragioni il volume di Dolcino risulta prezioso, sia dal punto di vista linguistico che storico.

Michelangelo Dolcino, un cantastorie della vecchia Genova, recita la quarta di copertina. Un prolifico autore di libri sulla storia e il costume  degli antichi genovesi che, per la composizione del suo  famosissimo dizionario,  origliava il suo amato dialetto in giro per la città, prendendo nota sul quadernetto dei motti e delle ingiurie che ancora non aveva registrato.

Cominciamo con la “storia” di  due toponimi, che forse non susciterà l’orgoglio degli abitanti, ma che è  molto significativa per comprendere lo spirito irriverente del popolo che, nonostante il famoso monito, scherza coi fanti e anche coi santi. Riportiamo dal dizionario.

PËGI n.pr. Pegli: centro appartenente all’agglomerato urbano di Genova. Secondo una curiosa leggenda, l’asino della Sacra Famiglia – come già a Pra (v.) – avrebbe qui perso peti sonori, provocando l’esclamazione di San Giuseppe:  “Semmo in scï pëgi!”, “siamo daccapo!”. E da quel pëgi il nome della località.
PRA – n.pr. Pra.
Secondo una leggenda coinvolgente anche Pegli (v. Pegi), il nome della località corrisponderebbe ad una onomatopea: PRA – n.pr. Pra.  Si riferirebbe, cioè, al suono dei peti emessi dall’asino della Sacra Famiglia, la volta che passò da quelle parti.”

Forse queste due false etimologie potrebbero essere nate in un contesto di sfottò campanilistici risalenti a chissà quale tempo e a quale occasione.

Come abbiamo visto negli articoli precedenti, l’ambito scatologico (relativo agli escrementi) ha fornito molto materiale al linguaggio scurrile, in ogni lingua, e il nostro dialetto non fa eccezione. Nel dizionario del Dolcino il lemma Merda occupa tre colonne e mezza fra modi di dire e proverbi, senza contare i termini derivati. Qualche esempio.

MERDA  Merda. Sono espressioni ingiuriose più o meno diffuse:

Ëse angoscioso comme a merda in letto, essere sgradevole come la merda in letto.

Ëse angoscioso comme a merda fresca in te miande, essere sgradevole come la merda fresca nelle mutande.

Non sono similitudini da esibire in società, certamente,  ma non se ne può negare la forza rappresentativa, irraggiungibile dalla lingua nazionale.

Il seguente poi assume la forma di una riflessione morale sulla pochezza della condizione umana.

 Ëse ûn pö de merda in scë ûn steccon,  essere un po’ di merda su uno sterpo.

A merda a monta o scaen,  la merda sale il gradino: di persona salita in superbia per un piccolo successo.

Anche in questo caso la frase, sintetica e icastica, stigmatizza il comportamento del presuntuoso in modo inimitabile e irraggiungibile dall’idioma nazionale.

La seguente vale per il “sepolcro imbiancato” ma, come al solito, con una forza espressiva molto più intensa.

Dedato liscio liscio, de sotta merda e piscio, sopra liscio liscio, sotto merda e piscio.

D’inverno, fumma a merda asci, d’inverno, fuma pure la merda; quando si vede un ragazzino alle prese con le prime sigarette.

Qui mi permetto di essere in disaccordo con Dolcino, l’interpretazione mi sembra proprio fuori luogo.  Propenderei per “in certe circostanze anche i mediocri fanno la loro bella figura” o qualcosa di simile. La frase infatti ha un intento molto più ampio di descrizione dei comportamenti umani.

Ghe pa d’ese tutto le e a merda ninte“, gli sembra d’essere tutto lui e la merda nulla; di chi è molto borioso.

È l’equivalente della frase del marchese Del Grillo: “io so’ io e voi non siete un cazzo!”

Finisco con MERDAIEU insulto riferito ad un antico mestiere, avvilente ma di indubbia utilità, quello dei raccoglitori di sterco dalle strade. Riporto dal dizionario:

Ctz: I. Ferrando, “Vendo l’argento do mâ”, Genova, 1971, pag. 106:

“Nelle strade c’era abbondanza di sterco di mulo o di cavallo e i ragazzi se lo contendevano per utilizzarlo come concime o per venderlo. Erano ben attrezzati: scopa di brugo, paletta, vecchi recipienti di latta col manico di fil di ferro. I merdaiêu di Albaro avevano precise regole: al grido “Righe mae, mae righe!” (“Righe mie, mie righe!”) lanciavano a turno la loro scopa, e il punto di caduta segnava il limite sino al quale il ragazzo aveva diritto raccolta”. Un mondo lontano, perduto.

Consideriamo ora una parola molto usata nella parlata dialettale colloquiale: GONDON.  Nel dizionario del Dolcino troviamo:

Preservativo, profilattico. Dal nome di un londinese dottor Condom[2]. La voce è largamente usata come insulto e vale canaglia, farabutto. Hanno il proposito di riuscire ancor più ingiuriose le espressioni:
“Gondon sc-ciûppòu”, “profilattico scoppiato”.
“Gondon sarsïo cö fi negro”, “profilattico rammendato col filo nero”: ossia, largamente usato e vistosamente rabberciato.”
S’o fabbrichesse gondoin, i ommi nascieivan con duî belin, se fabbricasse profilattici, gli uomini nascerebbero con due cazzi,  si dice di persona particolarmente fortunata.

Consultando un altro testo, Gundun! (v. bibliografia),  veniamo a sapere che: questo termine ha assunto nel dialetto genovese una pluralità di altri significati e sfumature. […]  Gondon è la persona accorta, furba, scaltra, attenta al proprio tornaconto ma anche, con una forte accentuazione della negatività, chi è pronto a tutto pur di realizzare i propri fini, un disonesto, una canaglia, un farabutto, un traditore.

Al tempo stesso, però, la parola può prendere un’accezione, una sfumatura che volgono all’amichevole, al confidenziale, alla simpatia. Questioni di contesti e di toni di voce. Che non sempre è possibile cogliere subito, soprattutto per chi non è genovese.

Gondonaia e gondonata sono le cattiverie belle e buone, le canagliate e le ribalderie […]

Ma gondonetto è il briccone simpatico, o il bambino un po’ monello.

E veniamo ora alla parola per la quale noi liguri siamo conosciuti nel mondo a pari merito col pesto: sua maestà il Belin.

BELIN Pene. Letteralmente, budellino (da Béla (v.), budello). “Belin!”, rappresenta l’imprecazione, l’esclamazione più usata nel dialetto genovese, potendo assumere tono affermativo, risentito, solenne, stupito, iroso, sconsolato, beffardo, e altro ancora.

Questo capita con tutti i termini equivalenti di ogni regione italiana, v. minchia.

Ciò che stupisce, finché non la si vede nero su bianco sulle cinque colonne di questo dizionario, è la grande varietà di proverbi e modi di dire col belin protagonista. A parte l’ironia, l’espressività, lo spirito irridente e canzonatorio- tipicamente popolari- si possono scorgere qua e là, in queste locuzioni, tracce di un mondo scomparso.

O belin de Pio Nono (per dire un fico secco, una cosa di alcun valore) è espressione irrispettosa di cui si è persa l’origine.

O belin o l’é comme o speziä, o l’à bezeugno do mortä, il cazzo è come il farmacista ha bisogno del mortaio.

Ommo piccin tûtto belin, uomo piccolo, tutto cazzo, a conforto dell’uomo non dotato d’imponente statura.

A l’è ûnn-a che a-o belin a ghe dà do ti, è una che al cazzo dà del tu.

Ghe n’è finn-a che o belin o fa l’ungia, ce ne sarà finché il cazzo farà l’unghia; ci si riferisce a un tempo interminabile.

Ed ecco infine un significativo elenco di sinonimi:

Affare, Anghilla, Bananna, Canaio, Cannello, Cannetta, Cannocchiale, Cantabrúnn-a, Carottua, Casso, Cicciollo, Clarinetto, Flauto, Ghiccio, Manego, Manûbrio, Mostaciollo, Nenne, Ocarina, Pestello, Pigneu, Pistolla, Pinfao, Radiccia, Sûcchin.

Altrettanto vivaci ed espressivi  i termini derivati.

ABBELINOU – agg. Istupidito, rimbecillito, sciocco.

Grande, grosso e abbelinòu, grande, grosso e sciocco; si dice spesso d’individuo sufficientemente corpulento e stolido.

Èse ciù abbelinòu che lungo, essere più sciocco che alto; tanto più efficace, naturalmente, quanto più la persona è di notevole statura.

Ese ciù abbelinòu che tréi de l’Umpa, esser più sciocco di tre dell’U.N.P.A.. Si tratta dell’Unione Nazionale Protezione Antiaerea, operante nell’ultimo conflitto. Ne facevano parte i riformati, gli anziani: in tuta, cinturone, accetta ed elmo parevano ancor più obesi o magri, vari o valgi, non dando decisamente impressione di grande efficienza.

Questo è davvero un piccolo documento storico, e la dimostrazione di come il popolo sa prendersi gioco delle cialtronerie- non di rado ridicole- del potere.

Ci sono poi:

BELINÄ, l’urto violento; analogo alla nasata o alla panciata.

BELINATA, sciocchezza, errore.

BELINIXE, stoltezza.  Contrariamente alla belinata, che è un errore sporadico, questa è uno stato mentale permanente.

BELINN-A, sciocco/a; usata anche nella forma belinetta.

Chi è chiamato “belinn-a!”, può sempre rispondere: Tì e teu moinn-a!, “Tu e la tua madrina!”

C’è poi il BELINON, lo sciocco, il minchione. Letteralmente, è accrescitivo di Belin (v.), come avviene comunemente per altri vocaboli dialettali: bischerone, cazzone, minchione, ecc.

A questo lemma sono connessi proverbi e modi di dire che occupano due colonne del dizionario. Vediamone alcuni.

Belinon a çento doggie, minchione a cento pieghe; sesquipedale.

Se i belinoin avessan e äe ti daiesci de lungo de facciae in to cü a-i angieti, se i minchioni avessero le ali batteresti continuamente la faccia nel sedere degli angioletti.

Se i belinoin avessan e äe, saieiva de lungo nuvio, se i minchioni avessero le ali sarebbe sempre nuvolo.

Una annotazione: l’accrescitivo di belin non esprime affatto una qualità positiva. Cosa che accade anche in altri dialetti: minchione o cazzone  designano lo stupido. Non saprei come interpretare questo svilimento di un organo tenuto in così alta considerazione dai “proprietari”. Mi sembra comunque un contrappeso interessante alla misoginia diffusa nei detti popolari; d’altra parte, la cazzata è una stupidaggine, mentre la figata è cosa furba e pregevole.

Molto versatile anche il seguente verbo sempre di origine belinesca.

IMBELINÄ, fare, riuscire in qualcosa che presenta ostacoli; gettare; cadere; infischiarsene. Da Belin (v.).

Comme o l’à imbelinòu? Come ha fatto, com’è riuscito?

O l’à imbelinòu via ‘na cösa, ha gettato via una cosa.

O s’è imbelinòu zù dä scäa, è caduto dalla scala.

Me n’imbelinn-o! Me ne infischio!

L’amó o s’imbellinn-a dappertutto, l’amore si insinua dappertutto (Questo è il più bello di tutti!)

Dopo il re, sua maestà il Belin, volevo parlare della “regina”… anzi, delle regine, perché i termini principali che la designano sono tre, ma qui non c’era più spazio. Quindi ci rivediamo, se vi piacerà, mercoledì prossimo.

BIBLIOGRAFIA

Michelangelo Dolcino  E parolle do gatto  Ed. Erga

Walter Fochesato e altri (curatori) Gundun!  Feguagiskia’ Studios Edizioni


[1] http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=28440

[2] Secondo alcuni deriverebbe dal nome di un certo dottor Condom,o Conton o Colkburn, che sarebbe stato medico alla corte di Carlo II d’Inghilterra verso la metà del XVIII secolo. Nel tentativo di risparmiare al re l’imbarazzo provocato dalle molteplici rivendicazioni dei suoi figli illegittimi, costui avrebbe suggerito l’uso del budello d’agnello come metodo anticoncezionale. Non è per nulla sicuro, però, che questo personaggio sia realmente esistito.  https://www.comodo.it/blog/storia-del-preservativo/

Grazia Tanzi

(Informazioni sull’autore)

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