FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi


Eccoci pronti a proseguire l’avventurosa storia della “stoffa del diavolo”:

mettiamoci in riga dunque!

Nel precedente articolo abbiamo visto che nel Medioevo, il rigato era considerato simbolo della deviazione dalla norma, della trasgressione, e di conseguenza imposto ai reprobi di qualunque genere, affinché fossero immediatamente riconoscibili  e separati dai buoni cittadini.

Con l’Età Moderna, che in genere gli storici fanno cominciare  convenzionalmente con la scoperta dell’America, le cose cambiano. La rigatura dai tessuti si estende ad altri supporti e assolve ad  altre funzioni. La connotazione demoniaca si perde parzialmente  in favore di un uso domestico;  il tessuto rigato viene impiegato per le livree dei subalterni, di qualunque tipo, attestando dunque la condizione servile di chi lo indossa. Vestono a righe domestici di palazzo, addetti alla cucina, stallieri, servitori di tavola  e in seguito soldati, addetti alla caccia, guardie, comandanti di polizia.

I colori degli abiti rigati dei servitori  riprendono quelli degli stemmi dei loro signori, facendone così subito riconoscere l’appartenenza. Non necessariamente tutto l’abito è rigato, a volte sono sufficienti alcune parti, le maniche o i calzoni per esempio o una metà della giubba.

La moda delle righe domestiche esplode fra l’inizio del XV secolo e la metà del XVI, riguarda uomini e donne, queste indossano camicette, sottane, grembiuli rigati; altrettanto fanno valletti, paggi e, soprattutto nel ‘500 gli schiavi neri. Si inserisce così un tocco esotico che  ha inizio da Venezia:  la nobiltà  “importa” giovinetti dall’Africa per farne valletti e paggi che prestano servizio nei palazzi. Per inciso invito i lettori a riflettere su questo fenomeno: la presenza di schiavi africani in pieno Rinascimento, anche alla corte papale. La “moda” dei valletti neri si diffonde in tutta Italia e attraversa le Alpi, declina verso il 1560/80 ma se ne trovano ancora alcune tracce dal XVII al XIX secolo.

 La rigatura associata all’uomo di colore è attestata anche iconograficamente da dipinti e incisioni; in diverse Adorazioni dei Magi, Baldassarre, pur non essendo uno schiavo, viene rappresentato con veste rigata.  Il legame Nero e righe è frequente nelle incisioni e negli spettacoli teatrali: per interpretare un “selvaggio” si indossa un abito a righe.  La riga diventa così il marchio dell’esotico, della vita rimasta allo stato brado; Indiani d’America e Aborigeni Australiani vestono rigato;  come si vede ancora una volta la rigatura individua e separa i “diversi”: questa volta coloro che sono più lontani dalla  cosiddetta civiltà. Questo uso convive tuttavia con quello domestico, che  attraversa l’Ancien Régime e arriva fino alla metà del XX secolo; caratteristico il gilet –  spesso giallo e nero, dei maggiordomi, detti  anche tigers –   che dall’Inghilterra si diffonde in europa e negli Stati Uniti. La connotazione svalutante delle righe  accomuna dunque la servitù, gli animali e le popolazioni esotiche; pur non essendo più specificamente diabolica la riga esprime comunque significati negativi. Infine le righe passano fra i militari, i primi  ad adottarle furono i Lanzichenecchi, nel XV secolo; ma fu a partire dal XVII secolo che si estesero alle uniformi, agli stendardi, alle bandiere.

Ma la riga non finisce di stupire: riesce a coesistere pacificamente negli abiti della servitù e in quelli degli aristocratici, una bella scalata sociale che avviene trionfalmente, dopo alcune apparizioni intermittenti nei secoli precedenti, dalla  seconda metà del Settecento al primo Romanticismo; la si vede negli abiti, ma anche nelle stoffe d’arredamento: ha compiuto però una rotazione di novanta gradi ed è diventata verticale. Ha cominciato con l’ adornare  i costumi esotici, divertimento dei ricchi, ma dal 1775 in poi, all’epoca della Rivoluzione Americana, comincia ad invadere il mondo degli abiti, delle stoffe, delle decorazioni. 

Dal Nuovo Mondo emigra con successo nella vecchia Europa. Anche la  zoologia vede la sua riabilitazione; la zebra da “asino selvaggio”, da creatura pericolosa,  imperfetta, impura, viene riconosciuta, dal grande naturalista Buffon, come un animale ben fatto ed elegantemente vestito; anche la rigatura del corpo viene descritta in termini entusiastici che sottolineano la valenza estetica; da buon illuminista Buffon non teme le righe, anzi ne subisce il fascino. 

Come si diceva la moda parte dall’America, la cui guerra d’indipendenza è anch’essa figlia del Secolo dei Lumi.  La  bandiera con le tredici strisce bianche e rosse, rappresentanti le colonie ribelli, diventa l’emblema della libertà, la rigatura assume una connotazione ideologica e politica, chi le indossa si proclama anglofobico e libertario. Ma è anche una moda, le righe invadono l’Europa, Inghilterra compresa: non c’è capo di vestiario che ne sia privo, dalle mutande alle sciarpe, dalle calze alle sottane,  dal mantello ai calzoni, insomma qualunque capo od accessorio le ostenta con fierezza e con modalità interclassista, la riga è aristocratica e contadina. Neppure l’arredamento e la decorazione restano immuni: carte da parati, tende, mobili, divani, le righe occupano ogni spazio. 

Non si sa bene per quale motivo, ma anche la Rivoluzione Francese si spande sulle superfici rigate, che ne diventano un simbolo imprescindibile. L’origine va ricercata nella coccarda e nella bandiera, la prima si presenta come un bersaglio a strisce concentriche che suggeriscono la percezione del movimento, la si vede da lontano, funge da insegna. È adottata fin dal 17 luglio 1789 per motivi non ancora noti,  quindi  diventa l’emblema della Guardia Nazionale, e per estensione quello dell’unità nazionale, assumendo un carattere quasi sacrale, la cui profanazione è crimine contro lo Stato: vendere coccarde non tricolori comporta la pena di morte.

La bandiera invece si affermerà qualche  tempo dopo;  la disposizione delle strisce resterà variabile e indecisa fra l’orizzontale e il verticale, e nella disposizione. I tre colori intanto sono diventati il simbolo della Francia in rivolta, e ricoprono ogni sorta di oggetti, coccarde, stendardi, bandiere, fasce, pennacchi, baldacchini. Pantaloni, gilet, gonne e grembiuli, dopo il 1789 diventano delle vere e proprie “uniformi” patriottiche. La moda delle righe era precedente alla  Rivoluzione, ma con essa acquista un valore simbolico diverso. 

Torniamo ora alla connotazione negativa delle righe, oggi per noi una persona che ha indosso un abito rigato potrebbe svolgere qualunque professione e appartenere a qualsiasi ceto sociale. Tuttavia, specie se le righe sono larghe e hanno colori contrastanti, pensiamo subito ad un ergastolano, a un carcerato, anche se ormai in nessun paese occidentale, nessun detenuto è più vestito così. Eppure una simile immagine persiste, nei fumetti e nella pubblicità per esempio,  perpetuando uno stereotipo privo di corrispondenze con il reale.

L’origine dell’abito dei carcerati non è certa, forse è da collocarsi nelle colonie penitenziarie americane, dove fece la sua prima apparizione nel 1760. Uniformi simili le troviamo all’inizio del XIX secolo in alcune carceri tedesche, australiane, russe (Siberia), turche.  In Francia invece la divisa carceraria è rossa.

 La funzione è sempre la stessa: identificare il deviante e segregarlo, escluderlo dall’ordine sociale. Il rosso e il rigato sono egualmente vistosi, si impongono alla vista; il prigioniero è visibile da lontano soprattutto in caso di fuga. Le righe in questo caso non sono solo un marchio di esclusione sociale, ma anche strumento di degradazione, di avvilimento del detenuto. L’esempio più spaventoso di questa funzione lo troviamo nei lager nazisti.

 Le righe rimandano anche, visivamente e per metafora, alle sbarre della prigione. Questa funzione ostacolante la ritroviamo anche nelle strisce bianche e rosse delle sbarre dei passaggi a livello, e di tutti quei luoghi ai quali è proibito accedere.  

Interessante vedere come il linguaggio rechi evidenti segnali del legame che le righe hanno con la punizione, l’esclusione, la privazione. In francese rayer (rigare) significa tracciare delle righe, ma anche cancellare, eliminare, espellere; noi abbiamo radiare che proviene da radier, alterazione di rayer. Il verbo corriger (correggere) significa sia mettere in riga che punire; barrer (sbarrare), cancellare con un tratto di penna, mostra molto bene il nesso sbarre/righe/barriere. Termini analoghi si ritrovano in tedesco;  in inglese stripe è la rigatura tessile e si collega al verbo to strip che significa spogliare e privare, ma anche punire. Il latino ha stria (riga, striscia, stria), striga (fila  linea, solco), che rimandano a stringere  e costringere, imprigionare. Appare chiaro il nesso che la cultura occidentale ha stabilito fra l’idea  di riga e quelle di impedimento, divieto, punizione. 

C’è infine un altro aspetto da considerare: nel Medioevo i folli, insieme ad altri reietti, indossavano abiti rigati, sicuramente con fini di segregazione, ma anche di protezione, perché la loro condizione ne faceva facili prede del demonio. Si può ipotizzare che questa funzione protettiva sia rimasta sottotraccia fino ai nostri giorni: forse i pigiama a righe hanno la funzione di proteggerci dalle minacciose creature della notte? La storia continua.

Fonte  Michel Pastoureau  La stoffa del diavolo ed. il melangolo

Grazia Tanzi

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