FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi


Seconda stella a destra, questo è il cammino
E poi dritto fino al mattino
Poi la strada la trovi da te
Porta all’isola che non c’è…

[Di Grazia Tanzi]

I meno giovani (e non solo) riconosceranno i versi della nota canzone di Edoardo Bennato L’isola che non c’è tratta dall’album Sono solo canzonette, pubblicata nell’ormai lontano 1980. Nonostante la modestia (non priva di una certa polemica)  del titolo della raccolta e del brano omonimo,  questa non è solo una canzonetta;  di ciò erano ben consapevoli oltre che l’autore, tutti coloro che all’epoca  l’avevano apprezzata ed amata, e se noi  oggi siamo qui, ad oltre quarant’anni  di distanza a parlarne, è perché quel messaggio, che volava sulle ali di  una melodia popolare, facile da ricordare e da cantare, ha ancora qualcosa da dirci.

Quel motivetto, apparentemente senza pretese, con candida levità, ci offriva e ci offre una profonda verità su una delle modalità del nostro essere umani; la più ambigua e apparentemente incoerente, quella che ci fa ondeggiare fra due poli opposti: quello della realtà, dominio incontrastato della ragione, e quello del sogno in cui regna la speranza, anche la più ardita.

 Ragione e sogno ci appartengono entrambi, ad essi si devono le migliori conquiste della civiltà, la conoscenza e l’espressione artistica, l’etica e l’aspirazione alla felicità, per tutti, si intende.

 Durante la nostra lunga storia evolutiva, in contrasto o in dinamica sinergia, queste due attitudini hanno edificato la civiltà e la cultura, anche se sotto la minaccia costante della natura arcaica e ferina annidata nella parte più antica del nostro cervello: quella che, purtroppo, è capace delle più spaventose ed efferate violenze, e che non siamo ancora riusciti a sconfiggere, o almeno a controllare.

La canzone è un invito a non abbandonare la speranza di un sogno, quello di un mondo, che secondo la ragione non esiste, perché

 Non può esistere nella realtà
Son d’accordo con voi, non esiste una terra
Dove non ci son santi né eroi
E se non ci son ladri, se non c’è mai la guerra
Forse è proprio l’isola che non c’è, che non c’è

 è una declinazione musicale e poetica, alla portata di tutti del motto: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.

È un invito a non arrendersi, a resistere, a non curarsi del parere dei ragionevoli ben pensanti: in fondo quante conquiste sono state fatte proprio grazie alla spinta di un’idea folle? All’inizio tutte le riforme importanti il suffragio universale, l’istruzione gratuita per tutti, l’abolizione della schiavitù, sono state considerate idee impossibili da realizzare.

Quella è l’isola che non c’è
E ti prendono in giro se continui a cercarla
Ma non darti per vinto, perché
Chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle
Forse è ancora più pazzo di te.

La canzone sintetizza in maniera semplice ed efficace, con un linguaggio accessibile a tutti, un concetto filosofico, un’aspirazione religiosa, presente fin dalle origini in tutte civiltà umane: l’utopia. Il sogno di un mondo diverso, sul quale hanno scritto filosofi, profeti, narratori, poeti, accumulando volumi e volumi sugli scaffali delle accademie e delle biblioteche, ma che può viaggiare leggero anche sulle ali di una canzone popolare.

Il sogno utopico di un mondo diverso, nel quale vivere in armonia, è antico quanto l’uomo, nato  sicuramente col pensiero simbolico che ci ha reso diversi da tutti gli altri primati.

Si rende necessario a questo punto rivedere e riabilitare il concetto di utopia che ha subito nel corso del tempo e nel linguaggio comune fraintendimenti e distorsioni di significato che lo hanno caricato di accezioni negative.

 La prima è quella che definisce l’utopia un’idea impossibile da attuare, utopico è qualcosa che non può esistere, perché estraneo alle leggi di natura, l’uomo non sarà mai privo di malvagità, per esempio; quindi l’idea utopica è non solo irreale, ma anche falsa.

  La seconda accezione di significato negativo attribuito all’utopia è quello di essere irrealizzabile, la giustizia, anche se di per sé potrebbe essere possibile, non potrà mai essere attuata pienamente nelle società umane; l’utopia è fatta di buone intenzioni, ma che non si concreteranno mai. Belli e giusti certi desideri, ma:

Niente odio né violenza, né soldati né armi.

Forse è proprio l’isola che non c’è, che non c’è.

Ci vuole un “sano” realismo.  Questo dice il realista disincantato all’ingenuo utopista. Il terzo significato negativo attribuito all’utopia è quello che la considera ingannevole. Gli utopisti sono in realtà dei dittatori che progettano una società modellata secondo i loro propri principi, e per rimediare alle ingiustizie finiscono col creare uno stato totalitario al cui vertice stanno pochi eletti. Una volta al potere rivelano il loro vero volto.

Ma le cose stanno proprio così? Forse sarà bene fare ancora un passo indietro e risalire all’origine di questo nome, al quale ora converrà attribuire la maiuscola perché Utopia è il nome di un’isola che c’è e non c’è allo stesso tempo, perché si tratta dell’invenzione letteraria di uno scrittore inglese del XVI secolo, Tommaso Moro (più propriamente Thomas More).

Tommaso Moro, colto umanista ed importante uomo politico e diplomatico, scrisse in latino, nel 1516, un libro universalmente noto come Utopia (in realtà il titolo era molto più lungo), nel quale viene riportato un diario di viaggio relativo ad una meravigliosa isola, nella quale è stato instaurato un sistema di governo perfetto e ideale. La parola, inventata dal greco, dall’autore, ha un significato volutamente ambiguo che oscilla fra eu-topia ottimo luogo e ou-topia luogo inesistente. Mi limito qui, almeno per ora, solo ad indicare l’origine del termine che ha dato luogo poi al concetto politico e filosofico cui abbiamo accennato sopra.

Ma allora l’utopia, con la minuscola, come va giudicata?

Scrive Lewis Mumford, autore di una classica “Storia dell’utopia”, composta  dopo l’immane tragedia della Grande Guerra

Per lungo tempo utopia è stato un altro nome per definire l’irreale e l’impossibile. Noi l’abbiamo posta in antitesi al mondo; in realtà sono le nostre utopie che ci rendono il mondo tollerabile: sono le città e gli edifici che la gente sogna, quelli in cui finalmente vivrà. Più gli uomini reagiscono alla propria condizione e la trasformano secondo modelli umani, tanto più intensamente vivono nell’utopia; ma quando vi è una frattura tra il mondo reale e il mondo superiore dell’utopia, noi ci rendiamo conto della parte che la tendenza all’utopia ha giocato nella nostra vita, e vediamo la nostra utopia come una realtà diversa. […]

L’uomo cammina con i piedi in terra e la testa per aria e la storia di ciò che è accaduto sulla terra – la storia delle città, degli eserciti e di tutte quelle cose che hanno avuto corpo e forma – è solo una metà della storia dell’uomo.[…]

Se il mondo nel quale gli uomini vivono fosse quello che conoscono i geografi, noi potremmo vivere come gli animali e smetterla di lamentarci continuamente per le nostre colpe e le nostre imperfezioni.
 Ciò che rende la storia dell’uomo così incerta e affascinante, è che si vive in due mondi – il mondo interno e il mondo esterno – e il mondo che noi abbiamo in testa ha subito trasformazioni che hanno disintegrato le cose materiali con la potenza e la rapidità del radium.

Ciò che Mumford intendeva dire, quasi cento anni fa, è che la forza delle idee è stata capace di cambiare il mondo materiale, e che le utopie, per quanto apparentemente irrealizzabili, possono cambiare in meglio il modo di vivere delle società umane. Lascio il quesito aperto: oggi, nel nostro tempo, amaro e disincantato, fra tecnologie nuovissime e dagli esiti ignoti (v. l’Intelligenza Artificiale) e i danni ecologici provocati da quelle vecchie; oggi sul pianeta ancora dilaniato da guerre e ingiustizie intollerabili, che posto e che ruolo può avere l’utopia, in quanto sogno e progetto di un mondo migliore?

Grazia Tanzi

Seconda stella a destra, questo è il cammino
E poi dritto fino al mattino
Poi la strada la trovi da te
Porta all’isola che non c’è
Forse questo ti sembrerà strano
Ma la ragione ti ha un po’ preso la mano
Ed ora sei quasi convinto che
Non può esistere un’isola che non c’è
E a pensarci, che pazzia
È una favola, è solo fantasia
E chi è saggio, chi è maturo lo sa
Non può esistere nella realtà
Son d’accordo con voi, non esiste una terra
Dove non ci son santi né eroi
E se non ci son ladri, se non c’è mai la guerra
Forse è proprio l’isola che non c’è, che non c’è
E non è un’invenzione
E neanche un gioco di parole

Se ci credi ti basta, perché
Poi la strada la trovi da te
Son d’accordo con voi, niente ladri e gendarmi
Ma che razza di isola è?
Niente odio né violenza, né soldati né armi
Forse è proprio l’isola che non c’è, che non c’è
Seconda stella a destra, questo è il cammino
E poi dritto fino al mattino
Non ti puoi sbagliare, perché
Quella è l’isola che non c’è
E ti prendono in giro se continui a cercarla
Ma non darti per vinto, perché
Chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle
Forse è ancora più pazzo di te.

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