Quasi ogni giorno l’abito arboreo si trasforma e ci regala l’incanto di un paesaggio diverso e di nuove emozioni. Per i più l’autunno è questo: aria fresca, cieli tersi e il sole che via via si abbassa sull’orizzonte e illumina il mondo con una luce radente, ideale per esaltare lo spettacolo della natura

di Sergio Rossi

Credo sia stato sempre così, ma per chi viveva sui ripidi versanti liguri, appena dietro il primo crinale appenninico, e oltre, fin quasi alla pianura, le speranze dovevano trasformarsi in raccolto, il raccolto delle castagne. Un anno senza castagne era una sciagura immane per quella gente; un anno da castagne era una festa. Gran parte della povera economia di quei monti si basava sui frutti dell’Albero, l’albero per eccellenza, quello che bastava dire “erbu” per indicare la “pianta del pane”. Per secoli le mille declinazioni della castagna hanno costituito la base dell’alimentazione rurale dell’entroterra ligure, integrate, come possibile, da pochi cereali e solo in seguito da patate e mais. Un vecchio negoziante di campagna ripeteva sempre le parole di sua nonna, la quale raccontava che il raccolto delle castagne condizionava la vita di quei monti e l’aspetto della gente.

Verso la fine dell’inverno, osservando se i contadini erano magri o grassi, si capiva se il raccolto autunnale era stato scarso o abbondante. Cose impensabili ai nostri giorni, che tuttavia non possono passare inosservate. Quella risorsa che fino a qualche decennio fa era vitale oggi è in gran parte sprecata, lasciata ai cinghiali, che ingrassano e affinano le proprie carni.
All’appuntamento col bosco autunnale mancano in pochi, i castagneti si rianimano di piccole e grandi comitive mosse da un unico fine: raccogliere la classica “borsina” di castagne. Se ci scappa anche qualche fungo tanto di guadagnato, ma i più non sono così attenti conoscitori del patrimonio micologico ed è molto meglio se si accontentano di quel po’ di castagne per fare le caldarroste o da lasciar marcire in casa, finendo col gettarle nell’immondizia.


Ma i boschi non sono tutti comodi, a portata di automobile, e basta allontanarsi un poco e frequentare i luoghi appena marginali, per vedere lo spreco che ogni autunno di ripete. Che l’annata sia abbondante o meno, ogni stagione succede la stessa cosa: ci si inoltra in un castagneto e si finisce per camminare letteralmente sulle castagne. E allora capita di fermarsi un momento a riflettere, e osservando quella coltre di sottili spine che protegge i preziosi frutti, il pensiero torna ai racconti di Eraldo e della sua nonna, alle attese per il raccolto e alle ansie per l’inverno. Il solo pensiero che ciò che oggi calpestiamo sia stato l’alimento base di intere generazioni, non può che lasciare sgomenti. Cosa penserebbero quei contadini se ci vedessero oltraggiare il frutto delle loro fatiche, la fonte principale del loro sostentamento, il loro pane quotidiano? È perfino difficile immaginare quale sarebbe la loro reazione, forse un sentimento iniziale che sta fra lo stupore e l’incredulità ma che presto si trasforma in rabbia: qualcosa che fa contorcere le budella e stimola la collera.
Così, quel bosco di castagni ci apparirà completamente diverso; anziché sembrare la selva abbandonata che spesso ci si presenta di fronte, ci accorgeremo che oltre quel primo impatto c’è molto di più. Capiremo che quel bosco non è nato così; quei castagni li ha piantati qualcuno che li ha innestati, li ha curati e dopo qualche anno ha cominciato a raccoglierne i frutti. Qualcuno con le mani callose, che si è spaccato la schiena per tentare di conquistare quel tanto che bastasse per sfamare la sua famiglia. Qualcuno che di quel bosco non sprecava proprio nulla, altro che calpestare le castagne. Perfino i ricci servivano per accendere il fuoco e le foglie per fare il letto alle vacche. Ed ecco che quelle cascine diroccate, ridotte ad un cumulo di pietre, riacquisteranno la loro dignità e cominceremo a capire il mondo che le ha create, la civiltà che le ha usate e custodite, il ciclo che le ha rese necessarie proprio lì, nel mezzo di un bosco marginale, lontano dalla nostra comoda auto e immerso in quel che prima ci pareva il nulla insensato, la natura selvaggia, che di selvaggio ha solo i rovi e l’abbandono degli ultimi decenni, nient’altro.


Di selvaggio lì non c’è proprio nulla; quella era la terra di qualcuno, quella terra da cui egli traeva il proprio sostentamento, ciò che serviva per sopravvivere e che quasi sempre, purtroppo, non bastava.
E allora quelle castagne? Che cosa ne vogliamo fare, vogliamo sempre calpestarle o vale la pena di ripensarci un momento?

Quel bosco appartiene comunque a qualcuno e bene o male  molti di noi, ogni anno, “rubano” quella famosa borsina di castagne senza la quale non sappiamo stare. Ma se quel bosco è abbandonato all’incuria, che differenza fa se chiunque di noi si prende quattro manciate di castagne che marcirebbero? Nessuna, in realtà, ma la differenza sta nel perché dobbiamo sprecare tutto quel cibo, di chiunque sia. Il problema non  è giuridico – chi prende qualcosa che non è suo – ma politico – cosa fare per evitare lo spreco -. Chi ha una soluzione efficace e realizzabile la proponga alla svelta che fa un regalo a tutti.
Non so se si potrà trovare un rimedio a breve, se c’è un problema che oggi non ci affligge è proprio la scarsità del cibo. Semmai è vero il contrario, mangiamo troppo e talvolta male, eppure non passa giorno che non si senta parlare mille volte di risorse a chilometro zero, di prodotti locali, di recupero produttivo del nostro entroterra, di “sostenibilità” – che termine odioso – e di cucina tradizionale.


In questa generale e schizofrenica ipocrisia sguazziamo quotidianamente ma poi andiamo a calpestare centinaia di migliaia di euro che altrove sanno raccogliere e trasformare in CIBO! E non c’è bisogno di fare tanta strada per trovare esempi concreti, solo che occorre uno sforzo comune per ottenere un minimo di risultati. Già, perché se c’è chi si prende la briga di fare questo lavoro e recuperare quei prodotti, poi occorre che qualcuno li compri, e soprattutto capisca che cosa farsene, come prepararli o direttamente mangiarli.
Ed ecco entrare in gioco la ristorazione, che ha un ruolo chiave in questi processi. Com’è possibile che in certe zone nelle quali si percorrono chilometri in mezzo ai castagneti ci si fermi a mangiare e non ci sia verso di sentirsi proporre una castagna? È un po’ come se nelle Langhe non proponessero il vino a tavola. Capisco che il paragone sia forte ma se solo si fa un giro nelle zone interne della Corsica, si capisce perfettamente quale economia possa ruotare attorno al castagno e ai suoi frutti.

Nelle aree marginali, piccoli negozi specializzati propongono una serie impressionante di prodotti derivati dalla castagna, dalla farina ai biscotti, dalle torte alla birra, dalle paste alle castagne secche, e questo solo per quanto concerne i prodotti alimentari. Non parliamo poi dei saponi, delle candele, degli oggetti in legno, eccetera. Insomma una scelta straordinaria che non consente di lasciare il negozio senza aver acquistato almeno un prodotto, un ricordo, un souvenir.
Tralascio l’annosa questione dei maiali allevati allo stato brado nei castagneti; in Corsica si fa e dà ottimi risultati.
Tornando alla ristorazione, il punto di forza sta proprio lì, nel raccontare a tavola le eccellenze di quel territorio, non solo per deliziare e soddisfare il cliente, ma anche per suscitare in lui la voglia di riprodurre a casa gli stessi sapori che avrà assaggiato. Sarà quasi impossibile, è vero, ma la voglia verrà lo stesso e occorrerà comprare i prodotti locali con i quali preparare quella ricetta. E in quel momento si realizzerà la vera promozione territoriale, fatta di emozioni vissute direttamente e di piacevoli ricordi da rivivere in luoghi diversi, in momenti diversi, a volte gustando un piatto o sorseggiando un vino.


Ecco che quel bosco di castagni non sarà più solo un bosco ma diventerà una coltura, un coltivo come un altro, un luogo dove si produce cibo, che per questo va protetto, curato e custodito.
Se raccogliamo qualche chilo di castagne, mangiamole tutte, facciamone trofie, caldarroste, dolci o qualunque altra preparazione, tradizionale o innovativa, ma che restituisca dignità a quel prodotto che ha nutrito molti dei nostri predecessori e in qualche modo a permesso anche a noi di essere qui.
(Prima pubblicazione articolo settembre 2010)

Sergio Rossi
Si occupa di storie e culture del cibo e della cucina. E’ stato direttore del Conservatorio delle Cucine Mediterranee di Genova, ha creato e curato l’Archivio per la Storia dell’Alimentazione Giovanni Rebora e ideato e curato i testi del blog ilcucinosofo.it . Vive e lavora fra Genova e l’entroterra genovese, indagando la cultura gastronomica delle comunità e le produzioni alimentari tradizionali italiane. Collabora con quotidiani, riviste e reti televisive.

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