Il Contastorie

Rubrica a cura di Roberto Gerbi
Il piacere di scoprire storie curiose, divertenti, drammatiche che un appassionato di libri ha ritrovato in biblioteche polverose, vecchie riviste e, qualche volta, in internet


LA GROTTA DEL CANE

La zona di Pozzuoli e dei Campi Flegrei è tornata recentemente all’onore delle cronache per la ripresa di un’intensa attività sismica. Ciò non deve stupire, in quanto la regione è nota sin dall’antichità per essere un’area vulcanica. Il nome stesso, Flegrei, deriva dal greco antico: phlégō, “brucio”.

Questi luoghi furono frequentati in passato soprattutto a scopo terapeutico, per la presenza di fenomeni di vulcanesimo secondario come le numerose sorgenti termali. Sulle pendici del Monte Spina sono ancora visibili i resti di un impianto termale di epoca romana risalente al I-II sec. d.C.

Pietro Fabris, illustrazione da “Campi Phlegraei” di William Hamilton, 1776

La presenza di antiche rovine e di notevoli fenomeni vulcanici, inseriti peraltro in una zona di grande interesse paesaggistico, hanno fatto dei Campi Flegrei una meta irrinunciabile per i viaggiatori che, fra Settecento e Ottocento, visitavano Napoli. Goethe racconta di una gita in mare fino a Pozzuoli, il 1° marzo 1787, seguita da “brevi e felici passeggiate in carrozza o a piedi attraverso il più prodigioso paese del mondo. Sotto il cielo più limpido il suolo più infido; macerie d’inconcepibile opulenza, smozzicate, sinistre; acque ribollenti, crepacci esalanti zolfo, montagne di scorie ribelli a ogni vegetazione, spazi brulli e desolati, e poi, d’improvviso, una verzura eternamente rigogliosa, che alligna dovunque può e s’innalza su tutta questa morte, cingendo stagni e rivi, affermandosi con superbi gruppi di querce perfino sui fianchi d’un antico cratere. Ed eccoci così rimbalzati di continuo tra le manifestazioni della natura e quelle dei popoli.

Si vorrebbe riflettere, ma ci sente impari al compito”.[1]

I viaggiatori giungevano nella zona via mare o, più frequentemente, attraversando in carrozza la grotta di Posillipo, la galleria scavata nel tufo della collina di Posillipo e che congiunge Mergellina a Fuorigrotta.

Giuseppe Antonio Rizzi Zannoni, da “Atlante geografico del regno di Napoli”, 1806

Tra le mete preferite dai “turisti” vi erano la Solfatara, il cosiddetto tempio di Serapide a Pozzuoli e la Piscina Mirabilis a Miseno. Nessuno di loro mancava però una visita alla Grotta del Cane, un antro artificiale, situato nei pressi delle sponde del lago d’Agnano. Oggi il lago, che allora aveva una forma pressoché circolare e un perimetro di 6,5 km., non esiste più, essendo stato prosciugato con una bonifica durata dal 1865 al 1870.

Pietro Fabris, illustrazione da “Campi Phlegraei” di William Hamilton, 1776

Pietro Fabris, illustrazione da “Campi Phlegraei” di William Hamilton, 1776

Resta un mistero chi effettuò lo scavo della grotta e perché. Nel 2001 lo speleologo Rosario Varriale del Centro Ricerche Speleologiche di Napoli, dopo un complesso e faticoso lavoro di pulizia, penetrò nella cavità attraverso un dromos (un passaggio) lungo circa 10 metri. La sorpresa più grande fu la scoperta, al termine del corridoio di una camera ipogea di circa 32 metriquadrati. In un angolo della camera, in alto, un tempo doveva aprirsi un pozzo o un lucernaio. La temperatura all’interno raggiungeva i 60 gradi.

Si è ipotizzato che la grotta fosse utilizzata, nel III-II sec. a.C., come sudatorio o come bagno termale.

Un’altra ipotesi affascinante è che fosse parte di un complesso di strutture di età ellenistica, forse di uso religioso, i cui resti furono rinvenuti nel fondo del lago in seguito alla bonifica.[2]

Già Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia, scritta intorno al 73 d.C., definisce però la grotta come “mortiferum spiritum exalans”, “esalante vapori mortiferi”.

La grotta del Cane diventa una attrazione turistica proprio per i gas velenosi, la cui presenza viene dimostrata esponendo ad essa degli animali, in particolare cani. Le prime attestazioni di questa barbara consuetudine risalgono al Cinquecento ma i primi viaggiatori famosi che ce la descrivono sono l’olandese Cornelis de Bruijn, che visita la grotta nel 1677, e il filosofo francese Montesquieu che la visita nel 1729:

“Sulla riva [del lago di Agnano] si trova una casa dove sono i bagni solforosi, il cui calore guarisce le malattie veneree e i reumatismi. Sulla stessa riva c’è la Grotta del Cane. Dopo circa un minuto, il cane si lascia cadere per la debolezza, gli manca il fiato, come se non potesse respirare. Ho preso una rana dall’acqua, che è morta in pochi minuti. A un piede da terra, la candela si spegne; la polvere del fucile non si accende. A tre piedi da terra, il vapore non è più nocivo”.[3]

Il lago d’Agnano, in illustrazione da “Les délices d’Italie” di Alexandre de Rogissart, 1709

Il francese Charles de Brosses, si trova in quei luoghi dieci anni più tardi, 14 novembre 1739, e non manca di esibire la sua notoria ironia.

“Subito sulla riva si trova la grotta del Cane, che è solo un brutto buco quadrato, grande come un caminetto, e quindici o sedici volte più profondo. Non ve ne faccio la storia, che voi del resto sapete. Il vapore mortale non è attivo oltre un piede o un piede e mezzo da terra; ma, a quell’altezza, soffoca in pochi istanti. Credo di aver sentito dire che tra tutti gli animali la vipera è quello che vi resiste più a lungo. Noi vi spegnemmo delle torce e degli stoppacci solforati, e facemmo sparare a vuoto le nostre pistole. Il cane giocò la sua parte, cadde in convulsioni e fu sul punto di morire, se il suo padrone non lo avesse tirato fuori di là e gettato sull’erba come un cadavere, dove presto riprese i sensi. Non ci fu bisogno di tuffarlo nel lago; cosa che reca un sollievo più rapido. Hanno addestrato Monsieur il barboncino a fare l’esperimento, come il compare d’un ciarlatano che beve sugo di rospo. Appena vede arrivare degli stranieri, sa che questo significa: sdraiati e fa’ il morto”.[4]

Johann Gottfried Seume, nel 1803, non mette alcun cane alla tortura, ma è colto da un opprimente mal di testa e, nonostante si affretti a uscire dalla grotta, racconta di averne subito gli effetti dannosi:

“Pranzando in un’osteria non lontano da Posillipo, addentai una castagna non molto dura e mi sentii a un tratto ballare tre denti come se fossero sul punto di cadere. “Agnano e la grotta del Cane ti costano un po’ troppo”, pensai fra me, già rinunciando ai tre denti davanti. Ma il mutamento d’aria e un po’ di riguardo li hanno rinsaldati, eccetto uno, ed è sperabile che anche questo guarisca. E se così non sarà, l’avrò sacrificato alla grotta del Cane”.[5]

Anche altri viaggiatori si rifiutarono di pagare per osservare “l’esperimento”; tra di loro: Washington Irving (1804), Percy Bysshe e Mary Shelley (1818) e Ralph Waldo Emerson (1833).

Johann Baptist Hoessel – La grotta del Cane, 1805

Chi ci offre la più completa descrizione di come si svolge la scena del soffocamento degli animali è Alexandre Dumas, che visita la grotta nel 1835, insieme all’amico pittore Louis Godefroy Jadin. Racconta che due cani, condotti dal padrone verso la grotta, tentarono dapprima la fuga:

“L’uomo si mise a trottare dietro di loro, chiamandoli; inutile dire che più li chiamava, più presto correvano. Dopo un poco uomo e cani sparirono a una svolta della strada. […]

E ciò che doveva accadere accadde: i due cani si fermarono alla porta del loro canile. Il padrone ve li raggiunse, passò una corda al collo del cane giallo, chiamò col fischio quello nero, e dieci minuti dopo la sua operazione lo vedemmo ricomparire, preceduto dall’uno e trascinando l’altro.

Ormai non c’era nulla da fare, bisognava che lo sventurato cane compisse il sacrificio. Giungendo alla porta della grotta, tremava in tutte le sue membra: spalancatasi la porta, era già semimorto. Sulla porta stavano cinque o sei monelli così cenciosi che, a parte le indiscrezioni dei loro stracci, era assai difficile riconoscere il loro sesso. Ognuno recava in mano un animale: uno una ranocchia, l’altro una serpe, questo un porcellino d’India, quello un gatto.

Quegli animali erano destinati ai piaceri degli amatori che non si accontentano della perdita dei sensi e vogliono la morte. I cani costano troppo caro, quattro piastre a testa credo; mentre per un carlino si può far morire la ranocchia, per due carlini la serpe, per tre il porcellino d’India e per quattro il gatto; è per niente, come si vede. Eppure un viceré, che senza dubbio non aveva danaro in tasca, fece entrare nella grotta due schiavi turchi e li vide morire gratis.[6]

Tutto ciò è ripugnante e crudele, ma è l’abitudine. Del resto, è vero che gli animali ne muoiono, ma i padroni ne vivono, e vi sono così poche industrie a Napoli, che questa bisogna ben tollerarla.

La grotta può avere tre piedi di altezza e due piedi e mezzo di profondità.[7] Introdussi il capo nella parte superiore e non sentii alcuna differenza fra l’aria che conteneva e l’aria esterna; ma, raccogliendo nel cavo della l’aria inferiore e portandola rapidamente alla bocca e al naso, sentii un odore soffocante. Infatti i gas mortiferi conservano la loro azione solo fino a trenta centimetri circa dal suolo, ma in quella zona asfissierebbero in pochissimo tempo l’uomo non meno che gli animali.

Era venuta la volta dello sventurato cane. Il padrone lo spinse nella grotta senza che opponesse alcuna resistenza; ma, appena dentro, gli tornò l’energia, balzò, si levò sui posteriori per sollevare la testa al disopra dell’aria mefitica che lo circondava. Ma tutto fu inutile; presto un tremito convulso s’impadronì di lui, ricadde sulle quattro zampe, vacillò un momento, si coricò, irrigidì le membra, le agitò come in una crisi d’agonia, poi di colpo rimase immobile. Il padrone lo tirò per la coda fuori dal buco; restò immoto sulla sabbia, la bocca aperta e piena di schiuma Lo credetti morto.

Ma era soltanto svenuto: subito l’aria esterna operò su di lui, i suoi polmoni se ne gonfiarono e agirono come soffietti; sollevò la testa, si alzò sul davanti, poi sul di dietro, vacillò un poco come ebbro; infine, raccolte d’un tratto tutte le sue forze, partì come una freccia e si fermò a cento passi su un poggio, dall’alto del quale, sedutosi, guardò intorno a sé con la più prudente e meticolosa attenzione.

Credetti che fosse finita e che il padrone non l’avrebbe riacchiappato mai più. Anzi gli partecipai questa osservazione; ma egli sorrise con l’aria di chi vuol dire: “Via, via, non siete ancora forte in materia di cani!” E, cavato di tasca un pezzo di pane, lo mostrò al paziente, che parve consultarsi per qualche secondo, combattuto tra la paura e la gola. Vinse la gola: accorse agitando la coda e divorò il suo cibo come se avesse affatto dimenticato l’accaduto.

Il cane nero aveva osservato l’operazione, gravemente seduto sul deretano, volgendo la testa e con l’aria di dirsi, come l’ubriacone di Charlet: “Eppure, ecco come sarò domenica!” […]

Domanda il nome dei due sfortunati quadrupedi la cui vita era destinata a trascorrere in perpetui deliqui: si chiamavano Castore e Polluce, senza dubbio per il fatto che, simili ai divini gemelli, sono condannati a turno a vivere e a morire. […]

Quanto alla ranocchia, alla serpe, al porcellino d’India e al gatto, dichiarammo che non eravamo punto curiosi di continuare su di essi gli esperimenti, bastandoci quello compiuto su Castore.

Tale decisione fu accompagnata da una coppia di carlini che distribuimmo ai proprietari di quegli animaletti per aiutarli ad aspettare pazientemente viaggiatori più «inglesi» di noi”.[8]

Uno degli ultimi viaggiatori a raccontarci la sua esperienza è Mark Twain che, nel 1869, scrive:

“Molti hanno scritto della Grotta del cane e dei suoi vapori venefici, da Plinio giù fino a Smith, e ogni turista ha tenuto fermo per le zampe un cane su quel pavimento, per provare i poteri del luogo. Un cane muore in un minuto e mezzo, un pollo all’istante. Di regola i forestieri che s’inoltrano lì dentro per dormirci, non si alzano finché non li chiamano. E nemmeno allora. Il forestiero che si avventura a dormirci, firma un contratto permanente. Ero ansioso di vedere la grotta. Decisi di prendere un cane e tenerlo fermo io stesso; lasciarlo soffocare un po’ e calcolare il tempo, lasciarlo soffocare un altro po’ e farla finita. Raggiungemmo la grotta circa alle tre del pomeriggio e iniziammo subito l’esperimento. Ma si presentava un ‘invalicabile difficoltà: non avevamo il cane”.[9]

J. Désandré – La grotte du Chien par, 1869

Nel frattempo, gli scienziati non erano rimasti con le mani in mano, cercando di comprendere le ragioni del fenomeno.

Pierre-Joseph Macquer, nel 1766, ci informa dei primi esperimenti:

“Il Sig. Adolfo Murray ora Professore di Notomia nell’Università d’Upsal, trovandosi nella grotta del cane, ha osservato, che quest’aria dava all’acqua un sapore acidetto e piccante; non mutava il colore dello sciroppo di viole, ma bensì quello della tintura del girasole, inacidiva il latte, decomponeva l’acqua di calce; cristallizzava l’alcali volatile caustico, separava l’argento dall’acido nitroso in forma di una polvere grigia”;

ed espone poi la sua teoria: “A me sembra più verosimile, che l’aria delle grotte volcaniche sia aria comune viziata in parte dal flogisto esalante da quei luoghi medesimi, ove anche per mancanze di vegetabili non può essere assorbito”.[10]

Nella seconda metà del Settecento, Simone Stratico, professore di Matematica e teoria nautica all’Università di Padova, invece che sui gas venefici, focalizzò il suo interesse sulle anomalie del comportamento delle bussole all’interno della grotta. In un manoscritto, redatto tra il 1783 e il 1784 e che fu erroneamente attribuito ad Alessandro Volta scrive: “Io feci molte osservazioni in quella grotta, tra le quali era, che l’ago magnetico perdeva la sua polarità, ma ciò non dipendendo dal Gas, siccome osservai col Gas artefatto, è chiaro che il fenomeno doveva attribuirsi a qualche miniera di ferro nascosta ne’ contorni della grotta”.[11]

Chi si dedicò più alacremente agli esperimenti sugli animali fu il naturalista e letterato francese François de Paule Latapie. Presso l’Accademia Nazionale Virgiliana di Scienze Lettere e Arti di Mantova, è conservata la dissertazione in lingua francese, che spedì all’Accademia per ottenere l’Accademicato. Il manoscritto espone dettagliatamente gli esperimenti da lui compiuti nel 1776 nella grotta del Cane:

“Il cane di cui il guardiano della grotta si serve per le solite esperienze (fatto questo che senza dubbio ha dato origine al nome di grotta del cane), è un animale così abituato agli effetti di questo vapore, che può essere esercitato anche a simulare più convulsioni di quelle che prova per essere pronto rapidamente a sbarazzarsi dell’amido, come gli è prescritto frequentemente 10 o 15 volte al giorno, e anche di più. Questo cane non vive, a fare questo mestiere, più di un anno o 15 mesi. Egli è molto più stupido e più lento degli altri cani, e verso la fine della vita sbava continuamente, tanto che abbiamo deciso di non farne alcun uso, e di portare con noi da Napoli un cane pieno di forza e di vita, di taglia media, della specie dei cani da caccia ordinari, e del tutto nuovo per l’esperimento a cui deve servire. […]

Abbiamo immerso il cane nel vapore e sul suolo ed egli ha fatto dieci guaiti acuti nello spazio di un minuto e mezzo, ed ha resistito un tempo un po’ più lungo con forza sufficiente per alzarsi da solo. Ma dopo 2 minuti e mezzo è rimasto disteso, le sue convulsioni sono via via aumentate, e la sua lingua è diventata sempre più violetta, apriva la bocca con tutte le sue forze, la sua testa si portava continuamente verso il petto con degli scatti, le sue gambe si irrigidivano, e tutto il suo corpo era preso da un tremore continuo. Ha pure orinato abbondantemente. L’abbiamo lasciato in questo stato per 50 minuti, dopo di che l’abbiamo tolto dalla grotta e improvvisamente le sue convulsioni sono cessate, ed in meno di un quarto d’ora egli ha ripreso abbastanza forza per sostenersi dopo aver espulso in abbondanza escrementi molto liquidi. Ma i suoi occhi erano stralunati, sbavava ed emetteva qualche guaito, faceva sforzi per vomitare accompagnati da tremori. 25 minuti dopo averlo rimesso nel vapore della grotta, gli stessi fenomeni sono ricominciati. Questa volta abbiamo chiuso la porta e questa circostanza è stata funesta per il cane, che ha cessato di vivere dopo 9 minuti, non potendo l’aria fresca ridargli alcun movimento”.

Latapie effettuò numerose autopsie sugli animali morti negli esperimenti e non mancò di provare su se stesso e i suoi collaboratori gli effetti del gas: “Noi stessi abbiamo respirato abbondantemente i vapori mofetici[12] con un tubo di vetro di largo diametro senza che qualcuno abbia avuto inconvenienti. […] Il vapore respirato mettendo la bocca contro terra è molto più forte, e allorché facemmo questa esperienza solo dopo qualche secondo sentimmo il petto oppresso, e moltissima difficoltà a respirare”.[13]

Anche il medico e abate Pasquale Panvini non esitò a sperimentare su di sé gli effetti delle esalazioni all’interno della grotta: “Avendo io conosciuto, che il cane non restava istantaneamente colpito da questo gas, come avea inteso raccontare, volli io stesso farne l’esperienza: abbassatomi infatti nel mezzo della grotta colla faccia a contatto del suolo, mi trattenni a respirare quel gas per lo spazio di dieci secondi, avendo eseguito nove intiere respirazioni fino a tanto che non soffrii un positivo incomodo. Gli effetti, che provai furono in principio de’ leggieri pizzicori agli occhi, ed un prurito al naso; indi un senso di formicolamento nelle gambe, nelle braccia, e nella faccia, e finalmente un’affannosa e stentata respirazione, che mi avvertì di non poter più a lungo continuare impunemente la mia esperienza”.[14]

Chi riuscì infine a comprendere quale sostanza causasse il fenomeno fu un eminente chimico francese, Jean-Baptiste-André Dumas:

“La grotta del Cane presso Pozzuolo, [sic] nelle vicinanze di Napoli, è divenuta celebre per la bizzarria apparente di alcuni fenomeni prodotti da tempi immemorabili dall’acido carbonico. Un uomo ritto in piedi respira in questa grotta senza incomodo, mentre il cane vi perisce quasi tosto. Ciò dipende dallo svilupparsi ivi continuamente dell’acido carbonico che rende colla sua presenza l’atmosfera della grotta irrespirabile sino a due piedi di altezza dal suolo”.[15]

Jean-Baptiste-André Dumas

La grotta risulta oggi inaccessibile: “Un poderoso cancello ne blocca l’accesso, visite guidate non sono previste e la stessa pro-loco di Napoli, competente per territorio, ne ignora non solo le informazioni ma anche l’esatta collocazione. Ma per chi decidesse di ripercorre testardamente per spirito di scoperta culturale le gloriose vie del trascorso «Gran tour» flegreo, ecco cosa troverebbe. Via Raffaele Ruggiero, quartiere Agnano, è l’unica via d’accesso che costeggiando il più famoso ippodromo conduce per un viottolo sterrato alla cavità. Cumuli di rifiuti, pneumatici abbandonati, scooter rubati e dati alle fiamme, nonché vere e proprie «colline» di spazzatura sono visibili per un lungo tratto. Coppie improvvisate s’«intrattengono» in auto per un fugace commercio sessuale e tossicodipendenti trovano rifugio consumando la loro segreta dipendenza tra i cespugli. Eppure le cavità flegree, tante e suggestive, rinomate dall’antichità, potrebbero rientrare nella costituzione di un moderno «parco geologico» che includerebbe il più fortunato complesso della «Napoli sotterranea».”[16]

Un’ultima curiosità: da notizie giornalistiche apparse nel 2019, pare che la N.A.S.A., l’agenzia spaziale statunitense, intenda finanziare speleologi e ricercatori italiani, al fine di utilizzare la Grotta del cane come laboratorio per lo studio dello sviluppo di microrganismi in ambienti estremi. Le indagini dovrebbero servire a verificare analogie con l’ambiente di Marte, un habitat altrettanto inospitale.

Il Contastorie” già pubblicati

Roberto Gerbi


[1] Johann Wolfgang Goethe, “Viaggio in Italia”.

[2] Tali notizie sono ricavate dal sito: http://www.napoliunderground.org/

[3] Montesquieu, “Voyage en Italie”, VIII.

[4] Charles de Brosses, “Le Président De Brosses en Italie”, XXXII.

[5] Johann Gottfried Seume, “L’Italia a piedi”, XXXI.

[6] “Questo fatto è attribuito a don Pedro de Toledo, che, peraltro avrebbe fatto l’esperimento su un criminale già condannato a morte”. (nota di Gino Doria a “Il corricolo” di Alexandre Dumas)

[7] Cioè alta circa un metro e profonda poco meno. Ma al tempo di Dumas la grotta del Cane era profonda m. 3,40, alta all’imboccatura m. 1,60, larga poco più di un metro. “Può anche darsi che a Dumas abbiano fatto visitare la vicina grotta del Morto, più piccola e che presentava gli stessi fenomeni”. (nota di Gino Doria a “Il corricolo” di Alexandre Dumas)

[8] Alexandre Dumas, “Il corricolo”. Alcuni attribuiscono l’opera al suo collaboratore Pier Angelo Fiorentino.

[9] Mark Twain, “Gli innocenti all’estero”.

[10] Pierre-Joseph Macquer, “Dictionnaire de chymie”, nella traduzione italiana di Giovanni Antonio Scopoli, “Dizionario di chimica”, 1784.

[11] Simone Stratico, manoscritto conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

[12] “Mofeta. Vanno sotto il nome di mofete le manifestazioni gassose dell’attività postvulcanica costituite essenzialmente da anidride carbonica, qualche volta accompagnata da metano e da altri gas. Sono frequenti nei terreni vulcanici recenti e anche presso i vulcani da lungo tempo spenti”. (Gaetano Ponte, “Enciclopedia Italiana Treccani”, 1934)

[13] Fulvio Baraldi, “Su un manoscritto di François de Paule Latapie, conservato Presso l’Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova, riguardante esperimenti da lui compiuti nella grotta del Cane presso Napoli nel gennaio 1776”, su Atti e memorie, Accademia Nazionale Virgiliana, 2018.

[14] Pasquale Panvini, “Il forestiere alle antichità e curiosità naturali di Pozzuoli, Cuma, Baja e Miseno in tre giornate”, 1818.

[15] Jean-Baptiste-André Dumas, “Trattato di chimica applicata alle arti”, pubblicato in otto volumi tra 1828 e 1846.

[16] Antonio Cangiano, articolo sul sito internet del “Corriere del Mezzogiorno”.

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