CINENOSTALGIA
Una rubrica relativa alla mia cineteca del cuore: non tanto i migliori film che abbia mai visto, ma quelli che amo maggiormente, quelli, cioè, che non mi stanco di rivedere.
Riccardo Mora
LA VILLEGGIATURA (1973)
Regia di Marco Leto
Sceneggiatura di Marco Leto, Lino Del Frà, Cecilia Mangini
Oggi vorrei parlare di un film che, a differenza dei precedenti, non ha avuto, almeno in Italia (in Francia è stato un grande successo), praticamente nessuna distribuzione, boicottato dallo stesso Italnoleggio Cinematografico, il principale produttore. In effetti è stato visto da pochissime persone e a volte in copie di pessima qualità…e temo non per caso: al di là del confino fascista, la tesi principale del film è infatti la continuità fra il governo dell’età liberale, il fascismo e quello repubblicano.
Il regista Marco Leto
è figlio di quel Guido Leto, che, prima capo dell’Ufficio per il confino politico e, successivamente, dell’O.V.R.A. (Opera Vigilanza Repressione Antifascista), segue Mussolini nella Repubblica di Salò e collabora con la Ge.Sta.Po. nella repressione anti-partigiana.
Marco, nel 1973, quarantaduenne, si definisce socialista libertario e trotzkista. Lavorativamente parlando ha alle spalle alcune collaborazioni da aiuto-regista con Franco Rossi e regie di sceneggiati e documentari per la televisione (particolarmente significativo per la genesi del nostro film è “Fuga da Lipari”del 1966, riguardante l’evasione di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, che scontavano una pena di cinque anni al confino).
Diciamo subito che l’istituzione del confino non è un’invenzione del fascismo; già i governi liberali lo avevano impiegato, nei confronti di oziosi, vagabondi, persone sospette, in varie circostanze: nel 1866 durante la terza guerra d’indipendenza; nel 1894 durante lo stato d’assedio contro i fasci siciliani, e con le leggi di Crispi contro anarchici e socialisti; nel 1898 con il successivo stato d’assedio a seguito dei moti di Milano; nella prima guerra mondiale per antimilitarismo, pacifismo, spionaggio (equiparati!).
Il fascismo peraltro impiega le stesse strutture usate nell’età liberale, isole e luoghi semi-inaccessibili del centro-sud. La differenza fra i due governi è che il fascismo accentua la connotazione politica del provvedimento, che peraltro può essere comminato direttamente delle autorità di Pubblica Sicurezza, eludendo la giustizia ordinaria; Mussolini ebbe a definirlo “igiene sociale”.
Proprio sulla scia del succitato documentario (si ricordi che in Italia siamo durante la “strategia della tensione”, iniziata nel 1969 con la bomba alla Banca dell’Agricoltura e che tutti i paesi del sud Europa, Grecia, Spagna, Portogallo, sono sotto dittature fasciste) Leto decide di affrontare il tema in un lungometraggio ed unisce i propri sforzi alla coppia di sceneggiatori Lino Del Frà e Cecilia Mangini (già autori dell’ottimo documentario “All’armi, siam fascisti!” del 1962.
Si gira a Ventotene, più sfruttabile della già troppo turistica Lipari, con uno stile documentaristico che si richiama decisamente al neorealismo. Lo stile è sobrio ed essenziale ed il film è registrato in presa diretta.
Il prof. Rossini, che si rifà alla figura di Carlo Rosselli, (qui interpretato da Adalberto Maria Merli, certamente nella sua migliore prova attoriale), uno dei pochi docenti universitari a rifiutare il giuramento di fedeltà al regime (nella realtà rifiutarono il giuramento solo 13 su poco meno di tremila docenti), viene condannato al confino, ma in una situazione decisamente previlegiata: ha infatti potrà far venre presso di lui moglie (Milena Vukotic) e figlia:
Vive in una villetta unifamiliare, ricostruita in studio seguendo fedelmente la descrizione che Carlo Rosselli fa della propria abitazione nelle sue note (gli sceneggiatori ne usano addirittura certe espressioni, come “vita da pollaio”). Anche la fuga sui tetti segue la descrizione che fa Carlo Rosselli della propria.
La sua condotta è controllata dall’ufficio del commissario Rizzuto (Adolfo Celi, che successivamente indicherà lui stesso in questa la sua migliore interpretazione).
La figura di Rizzuto è la più emblematica del film: rappresenta infatti il fascismo in “camicia bianca”, la burocrazia statale che transita, come si è detto, immutata dall’età liberale al fascismo e poi all’Italia repubblicana.
E’ significativa la frase che dice a Rossini :”Lo Stato non è mai liberale o autoritario per caso, le istituzioni si avvicendano secondo il bisogno, quello che conta è la continuità. Tra vent’anni tornerà la sua libertà e io me ne starò a casa, in pensione, e mi sceglierò il partito per cui votare”. Rizzuto gli fa inoltre capire come il governo Giolitti si fosse liberato dell’anarchico e regicida Bresci, sottintendendo la continuità ideale fra i due governi.
Il commissario Rizzuto è ispirato da Antonino Pizzuto, insigne studioso di lingue classiche, ex funzionario dell’O.V.R.A. e, nel dopoguerra, romanziere; Celi, a sua volta figlio di un Prefetto fascista, si dimostra particolarmente a conoscenza del funzionamento del sistema.
Rossini è quindi un previlegiato, in contrasto con gli altri confinati, che vivono nella fortezza, sottoposti al violento arbitrio del capo-manipolo Guasco (Roberto Herlitzka), che finirà per uccidere uno dei confinati, l’operaio Scagnetti.
La figura di Scagnetti, che si rifà al sindacalista anarchico Spartaco Stagnetti, ucciso ad Ustica nel ’27, è interpretata da John Steiner, inglese, unico attore doppiato.
E’ grazie all’omicidio di Scagnetti che Rossini completa la propria presa di coscienza: la bonomia di Rizzuto non è comprensione umana, ma un’abile interpretazione del suo ruolo di carceriere; mostra un volto accattivante per coinvolgere il borghese e renderlo inoffensivo.
E’ interessante come, nel dopoguerra, Leto fosse stato colpito da “La grande illusione” di René Clair, ma, pur essendone probabilmente influenzato, ne ribalta le dinamiche: là il rapporto carceriere-prigioniero è fra due mondi analoghi, destinati a scomparire, e genera solidarietà ed amicizia, qui è solo finzione.
In Francia, si diceva, ebbe un grande successo: “Le monde”, non precisamente un organo di stampa bolscevica, scrisse che il film mostra come dovunque ci sia sempre stato “un regime, quello dei funzionari e degli amministratori, che supera indenne i propri fallimenti e i trionfi passeggeri delle ideologie”. (A questo proposito vale la pena di leggere “L’epurazione mancata”di Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona, riferita alla Magistratura nel passaggio dal fascismo allo stato democratico)
C’è da eccepire, a parer mio, sulla didascalia finale, che recita :”Il professor Rossini ha due date per morire: la prima in Spagna, con la repubblica democratica, nel 1936, la seconda in Italia, dopo i giorni della Resistenza, il 18 Aprile 1948”.
Per esplicita dichiarazione del regista, il 1936 non rappresenta la caduta della Repubblica spagnola, ma la repressione, da parte delle forze staliniste, nei confronti della C.N.T. anarchica e del P.O.U.M., socialista libertario. A parte la data sbagliata (la repressione nei confronti di milizie ed organizzazioni non comuniste è della primavera del ’37), si può anche essere d’accordo (se lo scioglimento delle milizie può avere un senso per la creazione di un esercito più coeso ed efficiente, sono in ogni caso inaccettabili processi farsa, omicidi ed accuse di tradimento di puro sapore staliniano); collide tuttavia col fatto che, se le elezioni italiane del ’48 fossero state vinte dal Fronte popolare, la coalizione sarebbe stata dominata dal P.C.I., fortemente maggioritario ed allora decisamente organico all’ortodossia stalinista.
Si tratta comunque di uno splendido manifesto di resistenza a difesa della libertà individuale che rifiuta le blandizie del potere: il rifiuto di quella” inveterata tradizione italiana di opportunismo e trasformismo di un popolo abituato per secoli a liberarsi col confessionale di ogni preoccupazione sui problemi morali” (Ernesto Rossi)
Un’ultima osservazione sugli attori mancati: Enrico Maria Salerno (precedenti impegni di lavoro) era stata la prima scelta per il ruolo di Rossini; Umberto Orsini (che avrebbe preteso di imporre le scelte per l’intero cast) per quello di Rizzuto; Catherine Spaak (che non voleva fare film politici) per la moglie di Rossini. Visto l’ottimo risultato ottenuto dalle “riserve”, non possiamo che rallegrarci per le rinunce. John Steiner, infine, che era stato segnalato dallo sceneggiatore Del Frà per il ruolo del capo-manipolo, diventa poi il confinato Scagnetti.
All’inizio si diceva che in Italia il film è praticamente sconosciuto e pressoché introvabile (che io sappia, è disponibile solo presso la biblioteca dell’Università Cattolica a Milano); è stato invece recentemente pubblicato il bellissimo volume collettivo “La villeggiatura di Marco Leto”, da cui sono tratte molte informazioni qui riportate, che parla diffusamente della genesi del film, con interviste ai sopravvissuti fra coloro che hanno partecipato alla creazione dell’opera