Pierre Michon “Vite minuscole” Ed. Adelphi
Libro “difficile”, una scrittura che richiede molta attenzione, va detto.
Nella versione greca del mito del diluvio universale, il compito di ripopolare la terra è affidato a Deucalione e Pirra i quali, dopo la devastazione provocata dalle acque, fanno scaturire dalla terra uomini e donne, lanciando dietro di sé – come in una semina – dei sassi, “le ossa della gran madre”.
Scabri come pietre, nati dalle dure zolle – che devono essere dissodate per dare il pane – sono i personaggi di questi otto racconti, e lo stesso autore, che ne è, a vario titolo, discendente o in qualche modo collegato, ha il compito di dar loro, attraverso la scrittura, un’altra vita, nella memoria. Siamo di fronte ad una “recherche”, non solo del tempo, ma di persone di cui sono rimaste solo labili tracce, che sarebbero perdute senza l’azione vivificante del linguaggio – in senso proprio – perché qui il linguaggio non si limita a raccontare, ma crea i personaggi, li fa esistere, colmando con la sua potenza evocativa – di ambienti, di pensieri, di situazioni – i vuoti delle loro storie delle quali sono pervenuti solo frammenti, come accade per gli antichi manoscritti. Lo scrittore non inganna il lettore, dichiara esplicitamente quando “inventa” pensieri e situazioni, quando cerca di immedesimarsi, cercando di cogliere i moti del loro animo, le segrete pulsioni, le ire, le commozioni, e lo fa in modo straziante, commovente, disperato, confidando nella scrittura come in una missione. Ma la recherche michoniana è anche, proprio in quanto legata alla terra, una ricerca di radici, di legami, di appartenenze, perché l’autore si sente, e in qualche modo è, un deraciné, lo scopriamo, perché nella trama delle vite minuscole raccontate, inserisce, come in una tessitura l’ordito della propria storia. Lo fa senza enfasi, senza pietà per se stesso, senza commiserarsi, elencando con sguardo algido le sue disgrazie e le sue miserie, la sua devianza, la sua lotta per far emergere la scrittura, l’incubo della pagina bianca, una lotta che tuttavia si conclude con una sfolgorante vittoria. L’accostamento a Proust si giustifica anche nella valutazione del linguaggio, sontuoso, labirintico, elegante fino alla ricercatezza, che costringe il lettore, in più occasioni, a percorrere a ritroso le righe stampate per riprendere il filo. Un linguaggio che ha la sua ragion d’essere nello stile epico della narrazione; le vite minuscole non sono solo riportate alla luce, ma assumono uno status mitico, non sono eroiche tuttavia, perché perdenti, figure tragiche che si stagliano contro la Storia, vite minuscole, ma di grandezza assoluta perché evocano e rappresentano tutte quelle, simili, che nessuno ha mai raccontato. L’accostamento a Proust termina qui, la sua recherche, estenuata, languorosa, popolata di figurine ben acconciate non ha nulla a che vedere con i personaggi petrosi, vestiti di ruvidi panni, di una campagna che richiama piuttosto lo Zola di La terra, che non quella idillica dei ricordi giovane Marcel. Notevole è anche la differenza nella mole delle due opere, quella di Michon non arriva alle 200 pagine, eppure è in grado, (potente sortilegio della grande letteratura) – con l’uso di un esiguo dispendio di parole – di evocare non solo mondi narrativi, ma una quantità enorme di associazioni interculturali che, come in una caccia al tesoro, il lettore deve scovare, fidando nella propria perspicacia e nelle proprie conoscenze, perché nell’originale non ci sono note a piè di pagina e la stessa scelta è stata fatta nella traduzione.