Con la rubrica “il mondo in città” si vogliono raccontare i fatti dalle varie regioni del nostro pianeta che sono rilevanti per noi genovesi, italiani. Sia che ci troviamo sotto la lanterna o altrove, come nel mio caso che scrivo da Bruxelles.
Alberto Spatola

Africa
Cos’è la Françafrique

Prima fu Haiti, nel 1804. Poi il Libano e la Siria, negli anni 40 del secolo scorso. Cambogia, Laos e Vietnam, negli anni 50 come Marocco e Tunisia. In seguito, negli anni 60 si dissolsero l’Africa occidentale francese e l’Africa equatoriale francese.
Infine, nella maniera più dolorosa, la Francia vide concludersi, sciogliersi, il suo impero coloniale: nel 1962 l’Algeria dichiarò la sua indipendenza.

Sin d’allora, da quel 1962, non dovrebbe aver più alcun senso parlare di Françafrique. Invece ancora oggi il termine si usa ripetutamente.
Sia in Francia che in Africa, il termine è utilizzato soprattutto per certificarne la fine.
Ma più lo si usa, più resta lì, come un fantasma, a inquinare il dibattito pubblico e la relazione tra Europa e Africa.

In realtà, il concetto di Françafrique, non rappresenta il passato coloniale, ma la maniera con cui la Francia, come molte le altre potenze, provó, in parte riuscendoci, a mantenere legami e interessi in piedi con le precedenti colonie.
Per esempio, il Regno Unito lo fa principalmente attraverso il Commonwealth, guidato dalla Regina o dal Re di turno.
Mentre la Francia, nel corso dei decenni, ha creato diverse consuetudini, istituzioni, ministeri e classe dirigente dedicata. Una moltitudine confusa, in cui è difficile districarsi, ma da cui si possono trarre alcune lezioni.
Al vero centro delle relazioni tra Parigi e la Françafrique c’è l’Eliseo: i Presidenti francesi con i loro pregi e virtù, ma soprattutto le loro appartenenze politiche e il logoramento che il potere porta con sé. Inoltre, è sempre mancato un obiettivo complessivo che giustificasse questo legame tra ex colonie e colonizzatore.

La Francia, nel corso dei decenni, ha creato l’organizzazione internazionale della francofonia, per la promozione della cultura legata alla lingua francese.
Il Presidente ha un segretario generale dedicato agli affari africani, scavalcando di fatto il ministero degli esteri.
Ci sono poi diverse basi militari francesi nelle ex colonie africane, e quando nuove difficoltà legate alla sicurezza sono sopraggiunte negli ultimi anni, si sono creati accordi come il G5 Sahel.
Inoltre, pressoché tutti gli stati della Françafrique non battono la propria moneta, ma è in Francia che si stampa il cosiddetto Franco CFA, cioè della Comunità o Cooperazione Francese in Africa. 
Insomma, la Francia vuole continuare a cooperare con le parti del mondo che ha sfruttato. Apparentemente, lo vuol fare per promuovere la cultura francese, ma anche per portare avanti gli interessi del Presidente di turno, e per garantire sicurezza in diversi territori, ed eppure per mantenere un legame finanziario.
Raggiungere però ogni singolo obiettivo non è possibile.
Ma soprattutto, nessuno ha mai chiesto in Africa cosa loro si aspettino dalla Francia.

Ormai sembra essere troppo tardi. I golpe, i giovani nelle strade e intorno le basi militari francesi, lo stanno dicendo in maniera chiara: in molti paesi si vuole che la Françafrique finisca, ora.
Così la rabbia dei giovani, dei disoccupati, dei disillusi verso le democrazie, ma anche dei disinformati e reazionari, si proietta verso la Francia, verso l’Europa, e in parte viene attratta, capita e usata da militari, la Russia e altri attori.

L’argomento qui non è se la rabbia sia giustificata – eccome se lo è – ma come sia possibile che la Francia riesca, di volta in volta, a far moltiplicare questa rabbia, anziché trasformarla in dialogo.

Léopold Sédar Senghor primo Presidente del Senegal – spesso appellato “Presidente poeta” –  seppure con qualche ombra, ha saputo dar vita a un paese che non ha mai visto un colpo di stato e che ha sempre scelto la sua classe politica democraticamente.
Senghor ha costruito e interpretato le relazioni con la Francia soprattutto attraverso la cornice del dialogo e del legame culturale. Non a caso è stato tra i fondatori dell’organizzazione internazionale della francofonia.
La Francia potrebbe ricostruire le sue relazioni col resto del mondo, e in particolare con l’Africa, seguendo il modello del dialogo proposto da Senghor.
Invece, Macron, durante l’ultimo meeting dell’organizzazione internazionale della francofonia, ha ben pensato di mettere la sua arroganza al centro del palcoscenico e ha dichiarato che “il francese è la lingua dell’Africa”. Un’affermazione accolta con fastidio da tutto il continente perché liquida in maniera sprezzante le migliaia di lingue locali, oltre al vasto uso nel continente dell’Inglese, dell’Arabo, del Portoghese e dello Swahili.

Tutto ciò potrebbe essere un problema soltanto per chi è sotto l’ombra della Torre Eiffel. Ma come noi vediamo l’Africa, a torto o a ragione, come un elemento unico, alla stessa maniera l’Europa è vista come un blocco coeso. E, in molti casi, la Francia è la parte per il tutto.
Perciò quando la Francia mette la sua arroganza al centro del palcoscenico, del dibattito, in realtà mette a repentaglio la reputazione di tutta l’Europa, di tutti noi.
Motivo in più per affrontare gli orrori ed errori del passato, in maniera nuova e guardando al futuro.
Cioè, a mio avviso, da Europei.

Alberto SpatolaAlberto Spatola
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