FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi


 […]  ero subito salito in barca; pochi colpi di remo mi avevano allontanato dai ciottoli della spiaggia  […] quando sentii un brusco abbassamento dell’orlo della barca, a destra, dietro di me, come se qualcheduno vi si fosse aggrappato per salire. Mi voltai e la vidi: il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere dentini aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono fra voialtri, sempre imbastarditi da un’espressione accessoria, di benevolenza o d’ironia, di pietà, crudeltà o quel che sia; esso esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia. Questo sorriso fu il primo dei sortilegi che agisse su di me rivelandomi paradisi di dimenticate serenità. Dai disordinati capelli color di sole l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti d’infantile purezza.

Knut Ekwall (1843 – 1912), The Fisherman and The Siren, Olio su tela

[…] come chiunque altro volli credere di aver incontrato una bagnante e, muovendomi con precauzione, mi portai all’altezza di lei, mi curvai, le tesi le mani per farla salire. Ma essa, con stupefacente vigoria emerse diritta dall’acqua sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che batteva lenta il fondo della barca. Era una Sirena.

 Così il vecchio Rosario La Ciura, insigne studioso dell’antica cultura greca – nel racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa  La sirena –  rievoca, per un giovane amico, l’incontro prodigioso che segnerà tutta la sua vita. Sarà un amore che durerà solo tre settimane, ma di un erotismo primordiale, intenso e totalizzante, sensuale e spirituale, animale e divino, al tempo stesso. Un amore che non gli permetterà di viverne più nessun altro.

Riversa poggiava la testa sulle mani incrociate, mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto; da lei saliva quel che ho mal chiamato un profumo, un odore magico di mare, di voluttà giovanissima. Eravamo in ombra ma a venti metri da noi la marina si abbandonava al sole e fremeva di piacere. La mia nudità quasi totale nascondeva male la propria emozione.

E sotto il sole, l’orgasmo del mare, diffuso in mille luci sfaccettate. Una descrizione intrisa di penetrante erotismo, per il contenuto e per la prosa, evocativa e fluente come le onde che lambiscono la barca.

Dopo il sorriso, e la malia del profumo salmastro, la seduzione della voce, che non è propriamente un canto, ma qualcosa di ben più complesso, cosmico.

Parlava e così fui sommerso, dopo quello del sorriso e dell’odore, dal terzo, maggiore sortilegio, quello della voce. Essa era un po’ gutturale, velata, risuonante di armonici innumerevoli; come sfondo alle parole in essa si avvertivano le risacche impigrite dei mari estivi, il fruscio delle ultime spume sulle spiagge, il passaggio dei venti sulle onde lunari. Il canto delle Sirene […] non esiste: la musica cui non si sfugge è quella sola della loro voce.

E infine l’amplesso, anzi i ripetuti amplessi.

Giungemmo a riva: presi fra le mie braccia il corpo aromatico, passammo dallo sfolgorio all’ombra densa; lei m’instillava già nella bocca quella voluttà che sta ai vostri baci terrestri come il vino all’acqua sciapa. […]  in quegli amplessi godevo insieme della più alta forma di voluttà spirituale e di quella elementare, priva di qualsiasi risonanza sociale […]

 Dalle membra di lei immortali scaturiva un tale potenziale di vita che le perdite di energia venivano subito compensate, anzi accresciute. In quei giorni […] ho amato quanto cento dei vostri Don Giovanni messi insieme per tutta la vita. E che amori! […] lontani dalle pretese del cuore, dai falsi sospiri, dalle deliquescenze fittizie che inevitabilmente macchiano i vostri miserevoli baci.

Il racconto lascia nel lettore il dubbio, come sempre fa la vera letteratura, che allude e non impone la sua interpretazione: il vecchio dice la verità o racconta, inconsapevolmente, un suo sogno? Un suo profondo desiderio? Appassionato studioso, già da giovanissimo, confida al suo interlocutore che quando si frequentano, notte e giorno, dee e semidee come facevo io in quei tempi, si disdegnano gli amori volgari, si va alla ricerca di un erotismo assoluto: carnale, estetico, spirituale, intellettuale, medium fra l’umano e il divino.

Quello con la Sirena non è forse l’incontro con uno di quei demoni meridiani che, nell’assolato mezzogiorno mediterraneo, fanno visita agli uomini: miraggi, materializzazioni di desideri, di sogni, di paure? Perché in fondo queste antiche figure mitologiche altro non sono che proiezioni di altre figure, inquiete, tormentate, atterrite, avide di conoscenza,  quelle che si agitano nell’interiorità di una creatura che ha imparato a pensare se stessa pensante.

Questa dunque la chiave di volta per tentare, con molta modestia e molta difficoltà, non di interpretare, ma di dare qualche rapida pennellata che possa evocare una figura mitologica fra le più complesse che esistano, presente con poche varianti in molte culture. Una figura, quella della Sirena, ancora ai giorni nostri,  pervasiva e carica di densi, multiformi e contraddittori significati. Ispiratrice delle arti, della letteratura, della cultura di massa, ma anche strumento di introspezione per comprendere il mondo delle nostre emozioni e delle nostre aspirazioni, conoscitive e intellettuali.

A questo punto inserisco il link che rimanda ad una canzone di Vinicio Capossela, seguito dal testo. Qui e non a fondo pagina, perché credo che la canzone vada ascoltata proprio a questo punto del discorso, perché lo chiarisce con sintetica immediatezza, come solo le belle canzoni sanno fare.  Ma se qualcuno teme di interrompere il filo della lettura, rimandi pure l’ascolto (ritroverete il collegamento in fondo all’articolo ndr).

https://youtu.be/_HzS5VW1F8U?si=cuLwIOAA4ZP22o6F

Le sirene

Ti parlano di te

Quello che eri

Come fosse per sempre

Le sirene

Non hanno coda né piume

Cantano solo di te

L’uomo di ieri

L’uomo che eri a due passi dal cielo

Tutta la vita davanti

Tutta la vita intera

Dicono fermati qua

Le sirene

Ti assalgono di notte

Create dalla notte

Han conservato tutti i volti che hai amato e che ora hanno

Le sirene

Te li cantano in coro

E non sei più solo

Sanno tutto di te

E il meglio di te

È un canto di sirene

E si sente nel rimpianto

Di quanto è mancato

Quello che hai intravisto e non avrai

Loro te lo danno

Solo col canto

Ti cantano di come sei venuto dal niente

E niente sarai

Uh uh, uh uh, uh uh

Uh uh, uh uh

Le sirene

Sono una notte di birra

E non viene più l’alba

Sono i fantasmi di strada che arrivano a folate

Hanno voci di sirene (ahah)

Riempi le orecchie di cera (ahah)

Per non sentirle quando è sera

Per rimanere saldo

Legato all’abitudine

Ma se ascolti le sirene

Non tornerai a casa

Perché la casa è

Dove si canta di te

Ascolta le sirene

Non smettono il canto

Nella veglia infinita cantano

Tutta la tua vita

Chi eri tu, chi eri tu, chi sei tu

Chi eri tu, chi eri tu, chi sei tu

Mnemosine

Perché continuare fino a vecchiezza

Fino a stare male?

È già tutto qua

Fermati qua

Non hai più dove andar

Le sirene

Non cantano il futuro

Ti danno quel che è stato

Ma il tempo non è gentile

E se ti fermi ad ascoltarle

Ti lascerai morire

Perché il canto è incessante

Ed è pieno di inganni

E ti toglie la vita

Mentre la sta cantando

Uh uh, uh uh, uh uh

Uh uh, uh uh

Uh uh, uh uh, uh uh

La Sirena di Tomasi di Lampedusa, bellissima, ibrida creatura marina, è nella sua seducente sensualità, la proiezione dell’ideale di un amore assoluto, di un Eros capace di unire in sé il desiderio sessuale primordiale, svincolato da sentimentalismi, moralismi e convenzioni, e anche l’aspirazione alla “voluttà spirituale”.  Le Sirene di Capossela sono un’elaborazione moderna, più astratta, concettuale, un “estratto”, consegnato alla musica,  derivato dai diversi, compositi e contraddittori significati di questo mito. Non è facile districarsi fra le molteplici rappresentazioni, visive e simboliche, di questo mito che si sono stratificate nella tradizione orale prima di fissarsi nei testi poetici e letterari, ma anche in altre arti, non ultima quella pittorica.

La più comune immagine che il termine Sirena evoca è quello, perturbante e sensuale, della donna-pesce, femmina bellissima dalla cintola in su, ma  che  sotto l’inguine, sotto i glutei ha il corpo di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e termina in una coda biforcuta. Le sirene greche però sono donne-uccello; quelle di Ulisse, al volto delicato di fanciulla e alla voce melodiosa e ammaliante, contrappongono un corpo di rapace, munito di ali e artigli. Una antica versione fa risalire la loro origine al rapimento di Persefone da parte di Ade; quando questi la ghermì non erano state capaci di difenderla, allora  la madre Demetra furiosa le trasformò in uccelli. Le sirene volarono via e, appollaiate su uno scoglio, si diedero ad insidiare i marinai di passaggio. Una variante narra che furono loro stesse a chiedere agli dei di dotarle di ali per poter cercare l’amica rapita anche sul mare. Una versione meno nota attribuisce ad Afrodite la loro metamorfosi, quale punizione per aver disobbedito al suo potere per conservare la propria verginità.

Donne-uccello o donne-pesce che siano, le Sirene sono creature legate all’acqua, forse perché la loro paternità viene attribuita al fiume Acheloo; l’abilità nel canto si deve invece alla Musa, loro madre, identificata secondo gli autori in Tersicore, Melpomene o Calliope.

Per Omero le Sirene sono due, tre per  gli autori successivi. Vari i loro nomi, i più noti: Partenope, viso di vergine; Leucosia, la bianca; Lighea, la canora.

Le Sirene non erano immortali, secondo una profezia la morte sarebbe sopravvenuta se un  marinaio fosse riuscito a sfuggire al loro incantesimo. Ciò accadde quando Ulisse, legato all’albero della nave, passò indenne oltre lo scoglio fatale: si uccisero gettandosi in mare.  La scena è rappresentata su un vaso attico del 470 a.C.

La morte delle Sirene però è narrata anche in un altro mito

.

Ulisse  non era stato il solo a sottrarsi al malefico incantesimo,  c’era stato anche l’argonauta Bute,  che si era gettato  in mare per raggiungerle e che fu salvato da Afrodite; la loro morte, per suicidio, però, avvenne quando Orfeo, suonando la sua cetra, le superò nel canto, permettendo così alla nave Argo di allontanarsi dal luogo fatale. Ammutolirono e, dopo aver scagliato gli strumenti della loro musica in mare, si gettarono tra le onde trasformandosi in rocce.

Ma in cosa consisteva il loro canto ammaliante e mortale? Era forse il potere ipnotico ed estatico della musica? Questa l’ipotesi primitiva, plausibilissima, ma ce n’è un’altra, frutto di una riflessione più raffinata e in qualche modo più filosofica.

La prima comparsa letteraria delle Sirene si deve ad Omero, nell’Odissea, canto XII, 39-46.  

Ulisse si appresta a salpare e Circe gli dà le opportune istruzioni di navigazione, soprattutto quelle per sopravvivere al canto fatale di queste creature.

  […] Fa’ come ti dirò; te lo ricorderà anche un dio.

 Tu arriverai prima dalle Sirene, che incantano tutti gli uomini che giungono loro.

 A chi ignaro si accosti e ne ascolti la voce mai più saranno vicini

 moglie e figli felici del suo ritorno. Le Sirene lo incantano con il loro limpido canto,

 adagiate sul prato. Attorno vi è un gran cumulo di ossa umane

 e di putridi corpi con la pelle raggrinzita. Perciò va’ oltre.

 Ai compagni tura le orecchie con dolcissima cera, sicché nessuno di loro possa sentirlo.

 Tu, se vuoi, ascoltalo pure, ma con le mani e i piedi legati alla nave veloce,

 ritto sulla scarpa dell’albero, cui siano state strette le funi,

 perché tu possa udire la voce delle Sirene e goderne.

 E, se tu scongiurassi i compagni e comandassi di slegarti, ti leghino con altre funi. (Cit. da  M. Malotti  Le sirene. Incanto e seduzione)

L’accenno ai corpi putrefatti e alle ossa sparse sul prato dell’isola, secondo una  interpretazione,  potrebbe essere il residuo di una tradizione più antica che vedeva nelle Sirene demoni volanti, accompagnatori delle anime agli Inferi.

 Ecco come le Sirene tentano Ulisse all’avvicinarsi della sua nave.

 Vieni qui, presto, glorioso Ulisse, gran vanto degli Achei;

 ferma la nave, per sentire la nostra voce.

 Nessuno è mai passato di qui con la sua nave nera,

 senza aver prima ascoltato delle nostre labbra la dolcissima voce

poi colmo di gioia riparte, conoscendo più cose.

 Noi sappiamo, infatti, quanto nell’ampia terra di Troia

 Argivi e Teucri patirono, per volere dei numi;

 e tutto sappiamo di ciò che accade sulla terra nutrice. (Cit. Ibidem)

Non è il potere melodioso e ipnotico del canto ad ammaliare i naviganti;  le Sirene detengono il sapere, la tentazione cui sottopongono gli uomini è  ben più pericolosa: è quella  voler conoscere più cose.  La stessa ambivalente aspirazione che Dante attribuirà al “suo” Ulisse facendogli oltrepassare quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi, ovvero lo stretto di Gibilterra, che nessuno aveva mai osato attraversare.  Ben lo aveva compreso Cicerone:

Non con la soavità delle voci né con la novità e la varietà del canto pare che le sirene fossero solite trattenere quelli che navigavano nei dintorni, ma perché affermavano di conoscere molte cose, in tale modo che gli uomini per desiderio di sapere sbattevano contro le loro rocce. […] Ben vide Omero che non poteva la mitica favola essere credibile, se un eroe come Ulisse da canzoncine fosse stato irretito. È la conoscenza che le sirene promettono, cosa che non era strano fosse più cara della patria a un uomo bramoso di sapere.

(M.T. Cicerone, De finibus bonorum et malorum , V, 18, 49) Citazione posta in esergo al primo capitolo del  libro Il canto delle sirene  di Maria Corti

La conoscenza è un valore ambiguo: è positiva aspirazione al sapere,  tipicamente umana, ma è anche un aspetto di ciò che i Greci chiamavano hybris, la tracotanza, il peccato di orgoglio che  sfida gli dei e porta alla rovina. Chi cede alle lusinghe della conoscenza sirenica si perde, allo stesso modo in cui l’Ulisse dantesco sparisce tra i flutti, e  Adamo ed Eva vengono cacciati dall’Eden per aver mangiato il  frutto della conoscenza.

Il mito non ha mai un significato univoco, la sua polisemia intrinseca fa sì che i suoi elementi possano essere diversamente interpretati. Il prato sul quale le Sirene attendono le vittime, ha anche una valenza sessuale; in diversi racconti mitici rappresenta il luogo di passaggio dallo stato adolescenziale e quello adulto, della maturità sessuale. Persefone è rapita da Ade mentre si trova su un prato, così Europa, che sta cogliendo fiori,  da Zeus.

Quello delle Sirene è il luogo nel quale avviene la seduzione delle vittime, attraverso un’attrazione distruttiva, che le terrà lontane dalle spose e dai figlioletti. L’indipendenza  delle sirene, che scelgono il partner sessuale, attirandolo col canto e la sensualità,  sovverte l’ordine “corretto”, nel quale è il maschio a “prendere”, più o meno violentemente la compagna e a portarla con sé.

Il richiamo delle Sirene distoglie l’uomo, che cede, ignaro, alla tentazione, e lo tiene lontano dalla casa e dalla famiglia,dai suoi beni e dalla vita sociale: è la morte perché egli perde la sua identità, le sue prerogative di maschio,  e il suo posto nel mondo. I cadaveri e le ossa sul prato hanno anche questo significato simbolico: la morte sociale. Ulisse, sulla via del ritorno, percorre una sorta di viaggio iniziatico per riprendere il suo ruolo identitario: come re di Itaca, marito, padre; deve affrontare il pericolo e il rischio di morte, rappresentato dalle Sirene, per esserne  nuovamente degno. Se fallirà rimarrà per sempre condannato alla marginalità, prigioniero di un mondo di mostri.

Inoltre il rapporto sessuale con un essere ibrido non è riproduttivo, e quindi sanzionabile.  Solo la Sirena però è colpevole, su di lei viene riversata tutta la responsabilità della seduzione di cui il maschio si dichiara solo vittima.

 Le Sirene possono così essere proiezioni di uno sguardo maschile che costruisce la donna come oggetto di desiderio sessuale e al contempo la sanziona e la umilia proprio per la supposta libertà sessuale creata da quello stesso sguardo. Immagine stereotipa, insomma, della pericolosità della donna che non accetta un ruolo subalterno ed esce dalle regole sociali relative alla sessualità. (cit. ibidem)

John William Waterhouse (1849-2917) The Siren

(Continua)

BIBLIOGRAFIA

G. Tomasi di Lampedusa  La Sirena  Feltrinelli

Marxiano Malotti  (curatore) Le Sirene. Incanto  e seduzione  Pelago ediz. Digitale

Maria Corti Il canto delle Sirene Bompiani

SITOGRAFIA

https://www.arte.it/foto/sirene-o-dell-eterno-incanto-1381

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Sirene_(mitologia)

Grazia Tanzi

(Informazioni sull’autore)

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