FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi


Formaggio con le pere, un gustoso abbinamento:  il succoso frutto, di qualunque varietà, si accompagna perfettamente a qualsiasi tipo di formaggio, fresco, stagionato, cremoso, dolce, piccante. E, naturalmente, tutti sanno che è bene Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere. Ma perché mai al contadino dovrebbe essere negata la conoscenza di una così semplice e modesta ghiottoneria? Un enigma stuzzicante: da dove proviene questo proverbio? Qual è il suo significato? Quale scopo si prefigge? L’abbinamento formaggio-pera non è molto antico, i Romani infatti servivano i frutti, da soli o con del dolce, a fine pasto; la prima testimonianza è riportata in un detto proverbiale francese, della fine del Duecento: Oncques Deus ne fist tel mariage / Comme de poire et de fromage. Traduzione: Dio non ha mai fatto un matrimonio più riuscito di quello fra la pera e il formaggio.

Nel Medioevo, c’era l’uso di cominciare il pranzo con cibi aperitivi che preparavano lo stomaco ad accogliere i cibi successivi, alla fine invece si servivano alimenti con capacità sigillatoria, che lo chiudevano per dare avvio alla digestione, il formaggio aveva appunto questa funzione, come la pera. In questo modo i due alimenti si trovavano in modo stabile nella stessa collocazione di portata.

In Italia, dove questa usanza era molto diffusa, le testimonianze più antiche risalgono al XIV secolo, come questi versi attribuiti a Petrarca:

Addio l’è sera / Or su vengan le pera, / Il cascio e ‘l vin di Creti.

All’Albergo della Stella, a Prato, fra il 1395 e il 1398, come testimoniato dalle note dei pranzi consumati, i pasti spesso terminavano con pere cotte e formaggio, sostituite a volte da frutti di stagione. Analogamente ai clienti di questa locanda, Filippo Maria Visconti chiudeva il pasto con mele o pere e formaggio. L’uso, diffuso soprattutto in Francia e in Italia,  viene riportato in numerose opere letterarie comico-burlesche,  in trattati e documenti privati.

Il  secondo elemento della coppia, il formaggio, per lungo tempo è stato associato a popolazioni rozze e primitive, ancora lontane dalla civilizzazione. È il cibo di Polifemo, delle tribù delle steppe, dei pastori e dei contadini, dei pellegrini, degli avventori delle locande, elemento della gastronomia povera. È l’alimento principale dei poveri, mentre sulla tavola dei ricchi compare come complemento o abbellimento o  quale ingrediente di altre preparazioni; costituisce dunque un discrimine di classe.

Neppure la medicina lo vede di buon occhio, ne consiglia il consumo in piccole dosi: Il formaggio è sano /se vien d’avara mano, recita un proverbio che circola in Italia, Francia, Spagna.

Nel corso del tempo, tuttavia, il formaggio, sia a pure a fatica, si riabilita. Entra a far parte dell’alimentazione dei monaci, quale cibo “povero”, assieme alle uova e al pesce; si diffonde nella cristianità quale alimento di magro da consumarsi nei giorni di astinenza. Sulla mensa dei nobili compare però sempre come elemento di altre preparazioni e mai come cibo in quanto tale, in Italia soprattutto, in abbinamento alla pasta. Anche la scienza medica parzialmente lo rivaluta, rispetto alle teorie precedenti, ma il suo uso non è indiscriminato: a ciascuno, secondo la propria natura, il formaggio giusto; vengono indicati anche alcuni usi terapeutici. I formaggi vanno bene per tutti, ma solo i ricchi e i nobili, distinzione importante, possono scegliere quelli più adatti alle caratteristiche della loro complessione fisica; collocarli al posto giusto nella presentazione delle portate, secondo i tipi;  dosarli nella giusta quantità.  I poveri sono costretti a mangiarli senza alcuna regola e senza restrizioni di quantità, semplicemente per sfamarsi.

Anche gli intellettuali, gli umanisti, che sostengono il valore della semplicità dei costumi degli antichi, diffondono la moda del gustum rusticanum.

Intanto anche la produzione si affina, grazie a particolari tecniche di lavorazione, e sul mercato compaiono formaggi di gran qualità e pregio, prodotti in varie zone d’Italia: pecorino di varie regioni, robiola, caciocavallo, parmigiano, mozzarella… Queste ghiottonerie compaiono sulle tavole dei ricchi come prodotti a sé, non solo come ingredienti per altre ricette. Talvolta sono oggetto di doni di prestigio a personaggi altolocati.

Ma la “scalata” sociale non è ancora terminata, molti ancora ritengono che il formaggio sia un cibo rozzo, non adatto ai gentiluomini. Nel Cinquecento la difesa e la celebrazione di questo alimento si realizzano addirittura attraverso componimenti poetici. Ercole Bentivoglio, nobile ferrarese, nel 1557 ne tesse le lodi in versi definendolo primo nutrimento umano; ingrediente indispensabile di ogni piatto: minestre, tortelli, torte; e alimento per favorire la potenza virile. Solo gente cieca e sciocca […] dice che gli è pasto da villano. Il conte Giulio Landi, nel 1542, per cantare le virtù del cacio piacentino, compone La formaggiata, dedicata al cardinale Ippolito Medici, nipote di Clemente VII. Quando gli invia l’opera lo fa con l’ accompagnamento di una forma di formaggio prodotta nella sua città, Piacenza, appunto. Omaggiare in tal modo amici e superiori, era per lui una pratica abituale, consigliata nel suo libro: chi ha da negociare con signori… porti un bel formaggio, subbito ti è fatto piazza, subbito le porte s’aprono.

Seguono poi le lodi di questo alimento: fatto del buon latte di bestie sane e ben nutrite in pascoli di erbe profumate; modellato nella forma perfetta, circolare; di straordinaria grandezza. Tutte qualità che gli conferiscono un elevato grado di nobiltà.  Infatti I reverendi abbati, vescovi, arcivescovi, cardinali e papi, i conti,  marchesi, duchi, arciduchi, i re e gli imperadori hanno molto caro e tengono per molto honore l’aver formaggio piacentino nelle mense loro. Molto convincente, direi.

A coloro che gli obiettano che il formaggio lo fanno i villani, rozzi, sudici e bestiali, e quindi tale è anch’esso, il Landi risponde con un poetico quadretto, che sfiora il ridicolo: il cacio piacentino è confezionato da pastorelle gentili, piacevoli e belle, che attendono a tutta la lavorazione: dalla mungitura alla cottura in caldaie nette e ben lavate nelle quali si rapprende in virtù del caglio, fino alla messa in forma del prodotto, in certi gran cerchii ben bianchi e politi, dimenati da gratiose e saporite pastorelle dalle trecce bionde, a braccia nude, con le sottane rialzate a mostrare le loro bellezze. Chiunque struggerebbesi di dolcezza e volentieri si presterebbe ad aiutarle dimenandosi con loro. Argomento senza dubbio suggestivo.

I medici oppongono ancora qualche resistenza, si scrivono trattati per dimostrare la nequitia casei, ma è una battaglia persa, gli estimatori del formaggio sono sempre più numerosi e finiranno per prevalere.

Questo rustico alimento entra con tutti gli onori sulle nobili tavole, ma resta una questione da risolvere: secondo la mentalità dell’epoca gli uomini non sono tutti uguali (la Dichiarazione dei diritti dell’uomo è ancora di là da venire), per cui anche l’alimentazione deve essere adeguata alle particolarità individuali che non sono solo fisiche, ma anche sociali, di classe di appartenenza. Il cibo di un contadino non può essere lo stesso di un gentiluomo, pena il sovvertimento dell’ordine sociale. I delicati stomaci dei cortesani abbisognano di cibi ben confezionati e raffinati, quelli dei villani  di alimenti grossolani e pesanti per evitare disturbi e malattie. Bertoldo, l’astuto e saggio contadino al servizio del re Alboino, ideato  da Giulio Cesare Croce, (1606) muore per aver mangiato i cibi raffinati della corte. Se gli avessero servito fagioli, rape e cipolle avrebbe avuta salva la vita. La storia è burlesca, ma la teoria medica è seria e  risponde alle convinzioni dell’epoca. L’alimentazione ha carattere fortemente identitario, al pari di altri segni di riconoscimento quali l’abito. I cibi rustici, che le classi superiori  accolgono sul loro desco, devono essere opportunamente trattati in cucina, come attestato dalle raccolte di ricette, per esempio con l’aggiunta di costose spezie.

E la pera? Vediamo.

I frutti, in particolare quelli deperibili, sono prodotti di lusso, non necessari alla sopravvivenza, beni effimeri, espressione del gusto signorile e della differenza sociale; la pera in particolare, soprattutto quella dalla buccia fine e sottile, che in un testo francese è addirittura paragonata al corpo di una gentildonna. Frutti e pere  sono oggetto di doni fra signori, come già visto per i formaggi. Gli alberi da frutto sono considerati, per così dire, l’aristocrazia delle piante; fra il XIV e il XV secolo si compongono persino poesie sulla frutta; nel corso del XVI secolo si scrivono numerosi trattati sulla frutticoltura, detto per inciso, è incredibile il numero di varietà di pere registrate, oggi andate perdute. Contrariamente al formaggio, che si è faticosamente conquistato nel tempo uno status sociale, la pera ha goduto da sempre di grande prestigio, ed è verosimile che il suo accostamento al rustico formaggio ne abbia favorito la nobilitazione. Ma ancora una volta a guastare…  i frutti nel paniere ci si mette la scienza medica che li considera un cibo poco sano. Si rendono dunque necessarie strategie di consumo che permettano di conciliare la passione delle classi elevate  per i frutti e la loro azione sull’organismo. Il dibattito scientifico era assai vivace. Molti i consigli: per quanto riguarda la pera il più diffuso era quello di accompagnarla col vino; oppure di consumarla cotta, e sempre al termine del pasto; anche l’uso di spezie aveva il potere di attenuare gli effetti negativi. Ma ecco che fa capolino una teoria nuova: le pere (e altri frutti) sono in grado di attenuare gli effetti nocivi del formaggio;  il primo a formularla è nel 1565 il medico italiano Castor Durante da Gualdo, seguito successivamente da Baldassarre Pisanelli. Una abitudine alimentare molto diffusa e praticata da parecchio tempo viene così legittimata dalla scienza: il freddo naturale della pera mitiga il caldo del formaggio. La correttezza dietetica si inserisce perfettamente nell’ordine sociale. Ma il formaggio è pur sempre un cibo rustico e le pere sono frutti alla portata di tutti, come fare dunque per mantenere la “giusta” separazione dei gruppi sociali?

Cruciale a questo punto appare il concetto di gusto e successivamente quello di buongusto. Il gusto, in quanto distinzione e apprezzamento del sapore, era considerato dalla scienza medica un istinto naturale secondo il quale ciascun individuo apprezza il cibo che più gli è congeniale e buono per la sua salute. In altre parole siamo portati a scegliere ciò che è adatto per noi e che ci fa bene, questa convinzione dura per tutto il Medioevo. Oggi ahimè sappiamo bene che non è vero!

Ma fra il XVI e XVII secolo si fa strada,  in Italia, in Spagna, in Francia, un’altra concezione. Il gusto, per estensione metaforica, supera l’ambito gastronomico e viene ad includere tutto ciò che arricchisce di piaceri  la vita quotidiana anche attraverso la vista, l’udito, il tatto l’odorato. Il  gusto, diventato buongusto, senso estetico, non è più una predisposizione naturale, ma diventa culturale, deve essere appreso.  Il de gustibus non vale più, i gusti non hanno tutti lo stesso valore, e ad alcune persone, gli “esperti”, è assegnato il compito di dettarne le regole. Il buongusto, coltivato mediante l’addestramento e l’educazione, deve essere pertanto esclusivo appannaggio delle classi elevate determinando così la differenziazione sociale. Si consolida quindi,  nell’Età rinascimentale, l’idea che la cultura sia riservata ad una élite dalla quale la maggioranza è esclusa.

Il rischio è che al contadino possa piacere il cibo (e non solo)  che piace al signore, cosa che sconvolgerebbe il “giusto” ordine sociale. Il dato, brutale, che se ne ricava è che al contadino debba essere negata l’istruzione, questa idea che si afferma fra il XIV e il XVI secolo rimarrà stabile per quasi tutto il ‘700. Si comincia così a capire il significato del nostro Al contadino non far sapere. Le ragioni ideologiche e culturali sono evidenti, bisogna ora trovare  il modello linguistico-letterario che ha dato origine al proverbio. 

Nel 1522 Francesco Berni compone una poesia per magnificare i cardi, una verdura di grande successo al tempo, ed ecco quanto afferma, con arrogante levità, ai versi 16/18:

Non ti faccia, villano, Iddio sapere,

Ciò è che tu non possa mai gustare

      Cardi, carciofi, pesche, anguille e pere.

Il proverbio ormai è quasi pronto, lo si può trovare in una raccolta

della fine del Cinquecento:

Non possa mai tu villan sapere

         Ciò ch’è mangiar pane, cacio, e pere.

Francesco Serdonati, compilatore del testo, così commenta: perché sendo noto a villani, l’usarebbono ancora chi, e ne cagionerebbono carestia e mancanza ai cavalieri. Insomma se anche i contadini ne mangiassero a noi signori non ne resterebbe.

Quello che sembrava un innocuo detto (popolare?) magari un po’ enigmatico, rivela tutta la virulenza della lotta di classe, quella dei signori, ben intenzionati a negare ogni forma di miglioramento sociale ai contadini. Ma chi sono precisamente questi signori, detti anche cavalieri, gentiluomini? Sono  i cittadini, opposti ai villani abitanti della campagna, quei proprietari attenti al massimo rendimento delle loro terre per mezzo dello sfruttamento del lavoro dei contadini. In Italia, fra i secoli XIV e XVI è molto in voga un genere letterario-propagandistico la satira del villano che prende di mira i villani in generale, ma soprattutto quelli che si sono arricchiti  divenendo quindi una minaccia. Le rivendicazioni di riscatto di questi parvenus, sommamente disprezzati nella letteratura fin dal Duecento, vengono soffocate fra il XV e il XVI secolo.

Chi di proverbio vuol ferire rischia di proverbio morire, potremmo dire. Infatti i villani preparano la controffensiva; nel XIV secolo in Europa circola il detto:  Non dividere le pere col tuo signore, che nella versione spagnola precisa: Ni en burla ni en veras ovvero né per scherzo né sul serio. In Francia si dice: Celui qui partage les poires avec son seigneur n’a pas les plus belles Chi divide le pere col suo signore non ha le più belle.  Un altro motto spagnolo è ancora più esplicito darte ha las duras y comerse ha las maduras ti darà le più dure e si mangerà le più dure.

Ma i proverbi non sempre hanno una interpretazione univoca, e spartire le pere col padrone può assumere il significato di devi riservarle a lui per rispetto.

Il proverbio Chi divide la pera con l’orso, ne ha sempre men che parte può avere due opposte interpretazioni, l’orso può essere il prepotente padrone o il famelico contadino, dipende da chi enuncia il motto. Quindi non esprime una verità assoluta e di conseguenza neppure dispensa saggezza.

In questo caso invece il proverbio è stato secondo una definizione di Erasmo da Rotterdam una finestra sul mondo, o meglio sulla storia.

BIBLIOGRAFIA

Massimo Montanari Il formaggio con le pere  Ed. Laterza

Giulio Cesare Croce Le sottilissime astuzie di Bertoldo Edizioni diverse

Giulio Cesare Croce Bertoldo Bertoldino e Cacasenno  Edizioni

Grazia Tanzi

(Informazioni sull’autore)

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