Alle origini della parlata e delle tradizioni genovesi

LA DOMENICA

Una volta la domenica aveva tutt’altro sapore, in quanto si trattava dell’agognato traguardo, e del conseguente meritato riposo, dopo una faticosa e interminabile “sei giorni”(infatti allora il sabato non era festivo né per i lavoratori, né per gli studenti).

Anche se la teoria leopardiana ci ha insegnato che è molto più gustoso il tempo dell’attesa che non lo stesso dì di festa,  noi sapevamo apprezzare sia l’una che l’altra versione. Già il poltrire un po’ di più sotto le coperte rappresentava un giusto premio, e nello scendere dal letto era facile che si avvertissero i profumi (i ödoî) emanati dalle pentole e dalle casseruole sul fuoco, facendoci pregustare quello che solo la domenica e i giorni di festa erano in grado di riservarci. Una pubblicità di quei tempi recitava che “con pasta Barilla è sempre domenica”, tanto da far pensare che la pasta della domenica era decisamente diversa da quella degli altri giorni. Infatti era quella fatta in casa, per lo più taggiæn (taglierini), confezionata con tutti crismi e le attenzioni, magari tiando a crosta in sciâ meizia (stendendo la crosta sulla madia) mentre in ta cassòula de tæra croccava o tocco de carne (nella casseruola di terracotta cuoceva a fuoco lento il sugo di carne). E il connubio fra questi due prodotti sarebbe poi risultato perfetto! La seconda portata poteva essere la stessa carne del sugo o comunque un altro tipo di pietanza che si discostava da quelle dei giorni feriali (giorni de deuvéi). E poi, quasi condizione  sine qua non, si doveva terminare con le più che canoniche paste alla crema, tante o poche che fossero, ma sempre paste fresche portate a casa nella classica confezione nel cabaret.

La domenica anche i vestiti erano diversi: i pantaloni buoni (quelli della domenica, appunto!), la camicia con la cravatta (accessorio impensabile da indossare fra il lunedì e il sabato), e anche le scarpe non erano quelle di tutti i giorni. Insomma, la domenica ci si vestiva e si mangiava diversamente.

E poi, mentre al mattino un certo numero di noi era stato a messa (allora non c’erano le funzioni prefestive e vespertine), al pomeriggio, neanche a pensarla diversamente, si andava al cinema. C’era solo l’imbarazzo della scelta in quanto fra Voltri, Pra’ e Pegli c’era una decina di sale da proiezione. E proprio nell’uscire dal cinema dovevamo, inevitabilmente, fare i conti con le prime ombre della sera, inesorabili indicatrici del morire del giorno. E non potevamo non pensare al lunedì ormai alle porte, che avrebbe dato origine ad altri sei interminabili giorni ma che, comunque come sempre, avrebbero trovato il loro atteso epilogo nella domenica successiva.

Nino Durante
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