Con la rubrica “il mondo in città” si vogliono raccontare i fatti dalle varie regioni del nostro pianeta che sono rilevanti per noi genovesi, italiani. Sia che ci troviamo sotto la lanterna o altrove, come nel mio caso che scrivo da Bruxelles.
Alberto Spatola
Nord America
10 anni di pontificato visti dai nativi Canadesi
foto (Copyright Vatican Media)
Quando Papa Francesco s’insediò disse che i Cardinali andarono a cercare il Vescovo di Roma quasi alla fine del mondo.
Il primo Papa dal continente americano, eppure probabilmente il continente “più cristiano e cattolico” sul pianeta. Ma la storia con cui il cristianesimo arrivò nelle Americhe è una storia spesso dolorosa e complessa.
Agli occhi di chi era in America prima dell’arrivo degli europei, i popoli indigeni, la Chiesa Cattolica è un’istituzione carica di significato e il Papa la sua incarnazione.
Quindi per comprendere i primi 10 anni del Pontificato di Papa Francesco una prospettiva interessante ed esemplificativa è quella dei popoli indigeni nelle Americhe, in particolare in Canada.
Nel Luglio 2022 Papa Francesco visitò il Canada, come parte di un processo di lungo periodo di riconciliazione con i popoli indigeni del Nord America, percorso che ha chiamato “Camminare Insieme”. Una passaggio cruciale, per chiedere scusa ai popoli indigeni del Nord America.
Ci sono tre aspetti da valutare per comprendere appieno l’importanza di questi gesti: cosa è successo storicamente, l’importanza dei popoli indigeni oggi e in avvenire, e la capacità trasformativa di Papa Francesco.
Ciò che da europei impariamo sommariamente sugli “indiani d’America” è che l’alcool, le malattie e la lotta per il territorio li cancellò dalla mappa, salvo alcuni che finirono in delle “riserve”. Ben poco conosciamo della loro cultura e quindi a livello superficiale pensiamo che l’assimilazione culturale sia passata attraverso il taglio dei capelli, l’interdizione di certi canti e pratiche, ma in generale si crede che siano fatti vecchi di secoli, per cui ben poco possiamo fare.
Anche in Canada, dove, agli inizi degli anni 2000, tra mille ostacoli, il governo federale provò a fare luce sull’assimilazione forzata sponsorizzata dallo Stato, per anni la consapevolezza scarseggiava. Salvo poi, un paio d’anni fa, diverse fosse comuni e anonime vennero alla luce e si è cominciato a parlare degli abusi perpetrati nelle scuole residenziali da parte degli ecclesiali cattolici, e in parte anglicani, per conto dello Stato Canadese.
Non secoli fa, ma, per secoli, fino ad alcuni decenni fa.
Le ultime scuole residenziali chiusero negli anni 90, così per generazioni bambini furono prelevati, portati il più lontano possibile dalle loro famiglie e isolati in scuole che ben poco avevano di educativo, ma facevano parte di un sistema di genocidio culturale.
I sopravvissuti non parlano solo di come venivano spogliati della loro identità, ma dei tassi di suicidi e sparizioni tra i bambini in quelle scuole.
Così si spiegano gli oltre 1000 corpi trovati finora soltanto grazie alla perseveranza dei popoli indigeni, perché per anni lo Stato evitò di fare ricerche.
I sopravvissuti parlano di come da chierichetti, finita la messa dovessero aiutare a seppellire i loro compagni di scuola, dei costanti abusi sessuali pedofili da parte del personale scolastico, le lotte per il poco cibo che portò molti a morire per malnutrizione.
Il tutto lontano dalle famiglie, privati delle loro tradizioni, lingue e forzati al lavoro, per esempio alla raccolta della frutta, e al cristianesimo.
Così buona parte di quei bambini morti e sepolti nei cortili delle scuole per decenni furono considerati dispersi. Le ipotesi, pur sempre conservative, è che siano più di 15mila.
Una ferita che ha profondi riflessi sociali anche nel Canada di oggi.
I popoli indigeni escono da secoli di genocidi e discriminazioni e non sono stati cancellati dalla mappa come può trasparire dagli insegnamenti scolastici.
Tutt’oggi il 5% della popolazione canadese è indigena. Milioni di persone purtroppo sovrappresentati nella popolazione carceraria, ed è particolarmente preoccupante la condizione delle donne tra cui ci sono alti tassi di sparizioni e femminicidio.
Le scuole residenziali, e non solo, hanno distrutto il tessuto sociale dei popoli indigeni e il Canada che fa vanto del suo modello di “mosaico culturale”, per cui le differenze sono celebrate e considerate ricchezza, deve fare i conti con questo passato che crea disuguaglianze profonde anche nel presente.
Ma non è solo il Canada che deve guardare con occhi diversi al variegato insieme dei popoli indigeni.
Le popolazioni indigene attraverso il mondo conservano conoscenze e pratiche pre-capitalistiche che li porta a essere in prima linea nelle battaglie di protezione dell’ambiente e gli habitat naturali, poiché vivono, e gestiscono, i luoghi dove risiede l’80% della biodiversità mondiale.
Per decenni, negli Stati Uniti, i parchi nazionali furono istituiti, per isolare e dislocare “gli indiani d’America” nelle sempre più segregate “riserve indiane”. Oggi la sfida, in tutti i continenti, è di proteggere, gestire e ripristinare gli habitat naturali per far fronte ai cambiamenti climatici.
Perciò l’ambientalismo, e il ripensamento della nostra relazione col pianeta, non può essere solo questione di raccolta differenziata e pedalate nei centri urbani, ma anche sincero coinvolgimento dei popoli indigeni per affrontare le future sfide.
Se c’è qualcuno che lo ha capito è Papa Francesco. Nei suoi 10 anni di trasformazione del Papato ha più volte sottolineato la necessità di un impegno profondo per la protezione “del creato. Nell’enciclica “Laudato Si” non si limita a un ambientalismo di facciata, ma mette in collegamento il degrado ambientale con le ingiustizie sociali.
Quando l’anno scorso Papa Francesco andò in Canada restituì due paia di mocassini che gli furono donati precedentemente in Vaticano. Due paia di mocassini segno della sofferenza dei bambini indigeni, in particolare di coloro che non hanno fatto ritorno dalle scuole residenziali. Ma un paio di scarpe che indicano anche la necessità di un cammino di pentimento, sofferenza e preghiera espresso in maniera eloquente dal Papa.
Il Papa in quella occasione andò anche oltre all’esprimere il dolore per quanto accadde, ma celebrò le tradizioni e usanze dei popoli indigeni con queste parole: “fratelli e sorelle, avete vissuto in questa terra per migliaia di anni con stili di vita che hanno rispettato la terra stessa, ereditata dalle generazioni passate e custodita per quelle future. L’avete trattata come un dono del Creatore da condividere con gli altri e da amare in armonia con tutto quanto esiste (…) onorando gli anziani e prendendovi cura dei piccoli. Quante buone usanze e insegnamenti, incentrati sull’attenzione agli altri e sull’amore per la verità, sul coraggio e sul rispetto, sull’umiltà e sull’onestà, sulla sapienza di vita!”
Purtroppo quando arrivammo sul continente americano non avemmo gli stessi occhi e cuore di Papa Francesco, e ancora meno i suoi predecessori.
Tra i tanti torti a cui Papa Francesco cerca di porre rimedio c’è la condanna della cosiddetta “dottrina della scoperta”.
Nel XV secolo, ancor prima della scoperta dell’America, diverse bolle papali offrirono, da lì ai secoli a venire, “copertura” ai “conquistatori” cattolici nelle loro azioni: così soprattutto spagnoli e portoghesi poterono colonizzare liberamente a patto che gli indigeni non fossero cristiani e potenzialmente convertibili.
Anche secoli dopo, nel 1823 la Corte Suprema degli Stati Uniti usò quei documenti per delineare la proprietà e la sovranità di diversi territori.
Adesso, oltre mezzo millennio dopo, il Vaticano sconfessa quelle bolle che costituirono la “dottrina della scoperta” e condanna come atti immorali le azioni conseguenti a quei documenti.
Un passo fondamentale per il cammino che c’è ancora da fare e che per troppo tempo si è rifiutato di cominciare.
Alberto Spatola