FOGLI SPARSI
Vagabondaggi di riflessioni e ricordi, appuntati senza un ordine preciso,
su fogli sparsi
Rubrica a cura di Grazia Tanzi


Linguaggio e misoginia

Un giorno nella mia classe, una quarta elementare, capitò che a causa di un’epidemia di influenza, tutti i maschietti, tranne uno, fossero assenti. Al mio “bambini state un po’ zitti, fatemeli segnare sul registro” si scatenò una furibonda protesta: alle bimbe proprio non andava giù che per colpa di uno solo tutte loro fossero considerate, almeno grammaticalmente, maschi: pretendevano che io dicessi “bambine”, suscitando ovviamente le proteste dell’unico superstite maschile che si sentiva offeso: ricordo benissimo la sua faccina sgomenta. Il fatto avveniva più di trent’anni fa, ancora non si parlava di inclusività della lingua, di modifiche alle desinenze, di politicamente corretto, di schwa, ma quelle combattive femminucce, che conoscevano bene la grammatica, già avevano notato che il linguaggio conserva e testimonia una lunga storia di discriminazione di genere. 

A parte la vecchia locuzione da spettacolo “Signore e signori, ecco a voi…” quando ci si riferisce ad un gruppo misto è grammaticalmente corretto usare il cosiddetto maschile indifferenziato (o esteso): gli alunni della classe prima; gli impiegati della tale azienda, gli studenti dell’ateneo, gli operai dello zuccherificio, gli attori e le attrici del teatro stabile, ecc. Da qualche tempo però nei discorsi, parlati e scritti, si è introdotta la doppia denominazione, gli alunni e le alunne, gli studenti e le studentesse, gli operai e le operaie, segno di una nuova sensibilità o semplicemente il timore, farisaico, di non apparire politicamente corretti? Personalmente nutro forti dubbi e trovo forzato un simile uso, che allunga inutilmente la frase e ne compromette stile e incisività. Dire le abitanti e gli abitanti di Genova mi suona, oltre che stiracchiato, sciocco se non si tratta di una statistica. Se mi capita di dover parlare di uomini e donne in unico gruppo uso di solito il termine persone o esseri umani, ma mi servo tranquillamente, quando necessario, del maschile indifferenziato senza sentirmi lesa nei miei diritti di donna.

Le mie scolarette, che tanti anni fa si erano ribellate all’omologazione grammaticale, avevano compiuto, sia pure a livello intuitivo, una interessante e profonda riflessione, linguistica e antropologica, che dimostrava in loro il comparire della capacità analitica e critica: avevano scoperto, che il linguaggio non era neutro e si modellava sulla concezione di uno status di genere ereditata da un lontano passato. Detto questo tuttavia, non credo che sia proprio una conquista nel campo dei diritti femminili   adottare la doppia denominazione nel formulare discorsi parlati o scritti, o pensare ad artificiosi mutamenti di desinenze, che francamente sfiorano il ridicolo. Qualche tempo fa a qualche bello spirito è venuta l’idea di sostituire al maschile indifferenziato un asterisco, che trasformava tutti in tutt*, bambini in bambin* ecc. alterando così drasticamente la grafia delle parole e la loro pronuncia. Stefano Bartezzaghi – giornalista, scrittore, semiologo – nel libro Senza distinzione, riferisce che un’amica fra il serio e il faceto notò che la U, né maschile né femminile, poteva essere adottata in sostituzione del maschile indifferenziato con questo elegante effetto: “Caru amicu, siete tuttu pregatu di provarci. Se possibile, numerosu»; qualcuno, riferisce Bartezzaghi, prese la proposta sul serio. A voi piace?

Una proposta che ha ricevuto un certo consenso è stata quella di utilizzare per la desinenza sostitutiva del maschile il cosiddetto schwa, un carattere dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA), il sistema che viene utilizzato per definire la corretta pronuncia delle migliaia di lingue scritte che esistono nel mondo. Questo segno occupa un posto mediano nel sistema di vocali e la sua pronuncia è un suono indefinito, simile ad una a;  il simbolo che definisce lo schwaè simile a una “e” rovesciata, “Ə”, e ricorda tanto il carattere “a” in stampatello.

L’ idea, lanciata da alcuni sostenitori dell’inclusività linguistica, ha suscitato però vivaci proteste da parte di molti addetti ai lavori che ritengono artificiosa e inutile questa modifica. Il mio parere, per quel che vale, è lo stesso.

La grammatica è un insieme di regole che permettono una efficace comunicazione, se funziona non val la pena di cambiarla per legge o d’ufficio; la lingua è uno strumento duttile che muta in funzione comunicativa, accoglie esigenze di pensiero nuove, realtà che prima non esistevano, attinge ad apporti di altre lingue, ma lo fa in maniera spontanea, sotto la spinta di esigenze precise. L’esperienza ha dimostrato che non si può creare o modificare a tavolino una lingua; l’esperanto, nato con le migliori intenzioni non ha mai funzionato. Sono invece nate in particolari condizioni le cosiddette lingue franche. Idiomi di emergenza, di necessità, “inventati”, soprattutto in ambiti commerciali o bellici, da parlanti di lingue madri diverse. A livello ufficiale, quando c’è necessità di mettere in connessione popolazioni dai diversi idiomi, di solito viene usata la lingua di una nazione in qualche modo egemone, il latino un tempo, il francese, oggi l’inglese, ma non se ne crea una nuova per legge.

Un’altra questione dibattuta è quella della versione femminile con il suffisso -essa di nomi per lo più indicanti mestieri, professioni, titoli nobiliari, ma anche nomi di animali: dottore /dottoressa; studente /studentessa; oste/ostessa; professore/ professoressa; principe/principessa; duca/duchessa; ma anche leone/leonessa; elefante/elefantessa. Qualche volta questo suffisso assume una connotazione ironica, derisoria: la medichessa, la generalessa, spesso anche la presidentessa che evocano personaggi di commedie satiriche e comiche; o stavano ad indicare un tempo le mogli di uomini che ricoprivano l’incarico corrispondente. Le prime donne diventate agenti della polizia municipale vennero subito appellate, non senza una sfumatura irridente, vigilesse: per molti non era stato facile mandar giù una simile rivoluzione, ebbene se qualcuno ha ancora il groppo, si rassegni e dica il vigile/la vigile, grammaticalmente e politicamente corretto. Una annotazione: al sostantivo poeta corrisponde generalmente poetessa, che non ha alcuna connotazione spregiativa o ironica, ma qualcuno oggi preferisce dire il poeta/la poeta, grammaticalmente può andare, si tratta di farci l’orecchio, d’altronde abbiamo già il pianista/la pianista.

Qualche problema, lo hanno dato alcune cariche giuridiche e politiche tradizionalmente di appannaggio maschile, quesiti che però si sono risolti, o si vanno risolvendo, con l’uso (e con buona pace di certi maschi). Avvocato, sindaco, ministro seguono la comune regola della mutazione in “a” della desinenza, quindi avremo l’avvocata (che i devoti pregano nel Salve regina), la sindaca, la ministra;  l’effetto straniante non è linguistico-grammaticale, ineccepibile, ma psicologico, si tratta di farci l’abitudine.  Il giudice diventa la giudice; il presidente, la presidente, il dirigente, la dirigente (sostantivi derivati da una voce verbale, il participio presente); cambia l’articolo come di solito avviene per le parole che terminano in “e”.

Alcune donne, tuttavia, preferiscono il maschile: una signora che dirigeva un’orchestra chiese esplicitamente di essere chiamata “direttore”. Anche in questo caso temo che ci sia un problema psicologico sottotraccia, una sorta di senso di inferiorità non risolto; la cosa non sorprende se si pensa alla fatica che devono fare le donne per affermarsi, soprattutto in certi campi. In questo caso rivendicare la desinenza femminile, prevista dalla grammatica peraltro, è un atto dimostrativo, piccolo, ma significativo, io, se lo fossi, ci terrei ad essere chiamata direttrice d’orchestra; i francesi hanno adottato un soluzione di compromesso, che non è priva di una certa eleganza, dicono madame le directeur mettendo pace fra i due generi.

Ci sono però casi in cui la versione femminile di certi vocaboli assume una coloritura pesante, volgare, violenta.

Stefano Bartezzaghi, sempre nel libro succitato Senza distinzione, riporta un lungo elenco, piuttosto noto, apparso e ancora circolante sul web, di sostantivi e aggettivi che, volti al femminile, esprimono un significato fortemente dispregiativo; alcune attrici comiche ne hanno fatto efficace strumento di satira in TV e in teatro. 

Un cortigiano: un uomo che vive a corte. / Una cortigiana: una mignotta.
Un massaggiatore: un cinesiterapista. / Una massaggiatrice: una mignotta.
Un professionista: un uomo molto pratico del suo mestiere. / Una professionista: una mignotta.
Un uomo pubblico: un uomo in vista. / Una donna pubblica: una mignotta.
Un uomo facile: un uomo senza pretese. / Una donna facile: una mignotta.
Un uomo disponibile: un uomo gentile e premuroso. / Una donna disponibile: una mignotta
Un passeggiatore: un uomo che cammina. / Una passeggiatrice: una mignotta.
Un cane: un amico fedele. / Una cagna: una mignotta.
Un uomo di vita: un esuberante compagnone. / Una donna di vita: una mignotta.
Un toro: un uomo molto vigoroso. / Una vacca:
Un mercenario: un soldato di ventura. / Una mercenaria: una mignotta.Un uomo allegro: un buontempone. / Una donna allegra:
Un amichetto: un piccolo compagno di giochi. / Un’amichetta: una mignotta. Ho citato fedelmente, non ho censurato  il poco lusinghiero epiteto dell’originale.

L’elenco, che ho drasticamente ridotto per questioni di spazio, nel libro è molto lungo e prospetta una grande varietà di attività e di condizioni sociali maschili a fronte di un’unica sfera di attività e condizione attribuita alle donne, quella sessuale. Essere, muoversi, agire nel mondo è per gli uomini cosa normale, mentre per le donne, fare le stesse cose, secondo un pregiudizio non del tutto superato, è esporsi e quindi offrirsi sessualmente. Scrive Bartezzaghi: “ “Un uomo che si espone: un coraggioso che affronta in prima persona i problemi collettivi. Una donna che si espone: una mignotta. […] la vita, l’allegria, persino il passeggio e in generale l’esposizione non sono certo preclusi a una donna, l’importante è però che non diventino tratti caratterizzanti. Una donna può certo essere vitale, ma non d’abitudine; può passeggiare, ma non troppo; può essere allegra, ma non deve esserlo sempre. […] la vita della donna deve essere appartata. In strada, nella vita pubblica, nel mondo non deve stare che transitoriamente. Nessuno di questi è il suo posto”.

L’uso del maschile indifferenziato è senza ombra di dubbio testimonianza dell’ inferiorità attribuita alle donne, ma non si presenta  come apertamente offensivo; invece questi  termini volti al femminile sono pesantemente volgari e misogini, possono essere usati come insulti da chiunque,  cambiarne il valore semantico non è semplice come cambiare una desinenza. 

Sono profondamente convinta che queste battaglie per una lingua inclusiva siano una perdita di tempo e di nessuna utilità per il miglioramento della condizione delle donne. Non solo, il clamore che suscitano nei media distolgono dai veri problemi, che sono di ordine educativo e sociale, e che competono alle varie istituzioni preposte:  la famiglia, la scuola, la politica,  ciascuna delle quali, nel proprio settore di azione deve contribuire  al superamento dei pregiudizi,  a rimuovere le cause di ineguaglianza, e opporsi, in questo caso per legge, alla violenza di qualunque tipo, perché è vero che le parole sono pietre, ma non lasciano segni così profondi nel corpo e nell’anima come certi maltrattamenti, né tolgono la vita.

Grazia Tanzi

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