Ogni anno, la sera del Venerdì Santo, si rinnova a Multedo la plurisecolare cerimonia della Deposizione di Cristo dalla Croce

1. Il fatto che sia definita cerimonia sottolinea come presenti particolari caratteristiche che ne hanno fatto fin dalle origini una forma di pratica religiosa senza trasformarla nel tempo solo in una manifestazione folcloristica.

 Si tratta di una tradizione conservatasi nel tempo, perché rinnovata di anno in anno dai Parroci succedutisi nella guida della Parrocchia e dai fedeli multedesi e, quindi, non solo trasmessa oralmente da una generazione all’altra.

L’unica documentazione  scritta conservata nell’Archivio parrocchiale  è il dattiloscritto realizzato nel 1957 da don Luigi Montaldo per riordinare le notizie sull’origine della cerimonia della Deposizione e sulle modalità del suo svolgimento liturgico. Il dattiloscritto è corredato di molte illustrazioni fotografiche e riprende, ampliandola, la breve descrizione della cerimonia fatta nel Bollettino parrocchiale del 1952  dedicato alla storia della chiesa di monte Oliveto. Vi è trascritto anche il contenuto di un foglietto ove è riportato il cerimoniale da seguire e di tre manoscritti di discorsi tenuti dai predicatori tra la fine  dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.

2. La sua realizzazione richiede un apparato scenico essenziale.
Su di un palco, eretto sui gradini dell’altare maggiore, sono rizzate tre grandi croci: al centro quella con il Cristo morto sovrastata dalla scritta INRI, ai lati quelle dei due ladroni, rappresentati da sagome cartonate sopra le quali su due cartelli sono scritti i nomi, Disma e Gisma, riportati nei Vangeli apocrifi.
La statua del Cristo, parte in legno e parte in cartapesta, è fissata ai bracci della croce da quattro chiodi di ferro battuto lunghi circa 20 cm ed ha le braccia snodate in modo da poter assumere posizioni quanto più possibile realistiche: sono penzoloni quando, staccati i chiodi che ne trapassano i polsi e i piedi, il Cristo rimane appeso sostenuto da una specie di sindone;  stese accanto al corpo quando è adagiato sulla lettiga usata per il suo trasporto al sepolcro. Sul capo ha una corona fatta di cotone e cartapesta con attaccate acuminate lunghe spine.
La cerimonia si svolge secondo uno schema fissoarticolato nei momenti della deposizione e della sepoltura di Cristo così come sono narrati nei Vangeli, specie in quello di San Giovanni.

Mutano invece le parole del sacerdote, che scandiscono tali momenti guidando i “massari” in cappa marrone ad eseguire i passaggi previsti ed i fedeli a partecipare con fede e a meditare sulla passione del Redentore. Salito sul palco il sacerdote richiama, infatti, il dramma della crocifissione e morte compiutosi poche ore prima e, poi, guida i fedeli a disporre il proprio animo ad assistere al pietoso rito della deposizione e della sepoltura, che Giuseppe di Arimatea e Nicodemo fecero al tramonto della Parasceve, il giorno della “Preparazione” della festività di Pasqua in cui gli Ebrei commemoravano l’uscita dall’Egitto. Il sacerdote dà, poi, l’ordine ai “massari” di staccare dalla croce il “titolo”, cioè la tavoletta con le iniziali J.N.R.J., che ricorda il cartello che sul Golgota riportava la scritta Jesus Nazarenus Rex Judeorum, voluta da Pilato e ripetuta , come attesta Giovanni, in ebraico, greco e latino. Nell’eseguire l’ordine i massari danno anche qualche colpo su uno dei chiodi della Croce. Il sacerdote commenta, quindi, il distacco della corona di spine e dei quattro chiodi, che vengono deposti nella lettiga accanto al “titolo”.

Terminato il discorso ordina che i massari calino, aiutandosi con il sudario, il corpo di Cristo e lo adagino sulla lettiga.

Come avviene in ogni funerale cristiano, il sacerdote incensa la salma del Cristo e dà inizio alla processione che ricorda il trasporto dal Golgota al Sepolcro. Rientrati in chiesa, la cerimonia si conclude con il bacio al corpo del Redentore e con la sua deposizione sotto la mensa dell’altare del Sacro Cuore, ove un piccolo vano simula il sepolcro, che rimarrà vuoto la mattina di Pasqua con la sola scritta “Egli non è qui, è risorto”. A questo altare, durante l’anno, rimane esposta alla venerazione dei fedeli la statua del Cristo morto.

I vari momenti della cerimonia sono ccompagnati da un coro, che intona i tradizionali canti della Passione, dai mottetti al Miserere e allo Stabat Mater.

3. Secondo una tradizione consolidata, la cerimonia della Deposizione si svolse per la prima volta il Venerdì Santo del 1616, promossa dal carmelitano Padre Marino, che l’avrebbe ripresa da una analoga che veniva compiuta a Genova nella Chiesa dell’Annunziata sin dal 1600.

 Considerato che i vecchi di Multedo, negli anni cinquanta del Novecento, chiamavano ancora “il posto delle tre Croci” la collinetta sovrastante la chiesa, posta poco sopra il sito, ove sul finire dell’Ottocento sarà edificato il palazzo Pignone (poi Ansaldo e Chiesa),  sicuramente è lì che in quel lontano 1616, come sul Calvario, furono alzate le Croci  per rappresentare per la prima volta la Deposizione.

La cerimonia divenne un appuntamento tradizionale dei multedesi a partire dal 1630 per l’impegno dei Carmelitani che la vedevano come momento di catechesi per la devozione al Crocifisso, che insieme a quella per la Vergine, era ed è uno dei cardini dell’Ordine.

Alle 5 del pomeriggio, i fedeli si raccoglievano nella chiesa parrocchiale di Monte Oliveto, dove il Predicatore Carmelitano, dopo aver guidato l’Ufficio delle Tenebre, li invitava a salire il monte con il canto: Ascendamus ad montem murrae. Ascendamus ad collem thuris. (Saliamo al monte della mirra. Saliamo al colle dell’incenso).

Si saliva, così, in processione sulla collina ove avveniva la rappresentazione della drammatica Deposizione, compiuta la quale, sempre processionalmente, si scendeva alla chiesa per deporre il corpo martoriato del Cristo nel Sepolcro. La cerimonia cominciò a svolgersi solo all’interno della Chiesa dai primi dell’Ottocento a causa della soppressione del Monastero e della sua vendita, insieme ai terreni adiacenti, ai privati.

4. Da sottolineare, infine, che fin dal 1527 (cioè solo nove anni dopo la fondazione della chiesa e del Monastero di Monte Oliveto e quando l’una e l’altro erano ancora in costruzione), i Carmelitani come invito a meditare sul momento della Deposizione avevano esposto sulla parete di fondo del coro la grande pala dello stesso soggetto, opera mirabile del pittore Pier Francesco Sacchi.

Nel Natale del 1610 il padre Alberto Oneto aveva, tra i primi in Genova, allestito nella chiesa di Multedo sull’altare della Croce un presepio utilizzando statuine in legno rivestite e articolandolo in tre scene: quella della Natività, quella dei Magi e, infine, il 2 di febbraio, quella della presentazione al Tempio, ove il vecchio Simeone predice a Maria che “una spada le trapasserà l’anima”: la scena in primo piano della pala del Sacchi (come il gruppo marmoreo della “Pietà” di Michelangelo) bene rappresentano il dolore di Maria, il dolore di ogni  madre alla morte di un figlio.

La pala rimase sul fondo del coro ininterrottamente sino al 1946 circa, quando fu prelevata per restauri dalla Soprintendenza Antichità e Belle Arti: quando, finalmente, nel 1960 tornò a Monte Oliveto fu collocata sulla parete della prima cappella della navata sinistra, ove prima era l’altare dei SS. Nazario e Celso.

Anche negli anni in cui la pala fu lontana dalla chiesa, la Cerimonia fu celebrata, smentendo chi pensava che Cerimonia e Pala fossero legate in modo tale che la prima non si potesse celebrare, quando la seconda fosse assente.

Come è evidente (osserva don Montaldo nei suoi scritti) “si tratta di credenze che non si riesce a capire come si siano formate e soprattutto si siano radicate nella mentalità di certi strati della popolazione.” Forse una spiegazione può essere trovata nel fatto che la cerimonia promossa dal Padre Marino veniva proprio a porsi come un modo per dar vita, anno dopo anno, alle scene rappresentate iconicamente sulla pala.

(Testo tratto dall’articolo di Silvio Zavattoni pubblicato nel numero di marzo 2004 del Ponentino)

image_printScarica il PDF