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“POESSE FA COMME L’OCHIN” La poesia di Edoardo Firpo

Lingua e dialetto

Le nostre parlate regionali vengono comunemente chiamate dialetti, “sistemi linguistici di ambito geografico limitato, e contrapposti a quella che storicamente si è imposta come lingua nazionale o di cultura”, così recita un dizionario che ho consultato in rete. E qui casca l’asino, anche se dizionario, perché non è vero che solo la lingua nazionale è in grado di fare cultura, perché cultura è tutto quello che si impara e si trasmette di generazione in generazione, a livello collettivo e individuale. Conoscenze pratiche, usi, costumi, leggi, religioni, scienze, arti, insomma tutto quello che l’essere umano fa è cultura. Persino accoppiarsi, riprodursi, nascere e morire, che pure sono funzioni biologiche, sono regolate dalla cultura, ovvero da norme particolari che ciascuna società sceglie, come giuste e morali, e tenta di mettere in pratica, per questa ragione l’uomo viene anche definito animale culturale. Il dizionario intendeva, tuttavia, riferirsi ad un’accezione ristretta del termine ovvero alla cultura ufficiale, accademica, quella dei dotti, delle persone colte; che comprende, per il discorso che vogliamo fare, la cultura dei libri, della letteratura, della poesia. Ebbene anche qui si sbaglia e lo vedremo. L’unica cosa corretta della definizione è che generalmente il dialetto è parlato in un’estensione geografica limitata, e perciò non sempre è ben compreso fuori dai suoi ristretti confini. Un genovese potrà avere qualche difficoltà a capire il siciliano stretto, e viceversa, anche se con un poco di attenzione e un glossario si può arrivare ad intendersi. Certo una lingua nazionale unica è necessaria e presenta indubbi vantaggi, nessuno lo nega; ma nello stesso modo nessuno può ignorare la grande portata culturale che hanno i nostri dialetti, di tutte le regioni, un patrimonio linguistico, e non solo, che è giusto salvaguardare, non in nome di una malintesa identità delle radici, termine ambiguo che si presta ad interpretazioni anche strumentali, ma da conservare come memoria storica, da tramandare e condividere e perché no, anche da confrontare con chi è portatore di valori diversi.

Fatta questa premessa vorrei dimostrare, testi alla mano, che il dialetto, con la sua struttura grammaticale e sintattica, complessa e articolata, con il suo lessico ricco ed espressivo, ha tutte le carte in regola per esprimere non solo l’oralità colloquiale quotidiana, o la saggezza popolare che si dispiega nei proverbi e nei modi di dire, ma anche per rappresentare sentimenti più elevati, attraverso la poesia, quella scritta sui libri. A questo scopo esaminerò alcune liriche di un grande poeta ligure, che è riduttivo confinare della classificazione di dialettale: Edoardo Firpo.

La poetica di Edoardo Firpo

Edoardo Firpo (1989-1957) è un poeta malinconico e sommesso, così come è stato un uomo schivo e appartato durante la vita. Nelle sue liriche i grandi temi della condizione umana, la precarietà, l’amarezza e il disincanto, sono accettati con umiltà, mai con passiva e inerte rassegnazione, ma temperati e addolciti dalla contemplazione delle piccole meraviglie della natura, quelle offerte dal paesaggio ligure.

Un piccolo paese fra i boschi: Pâ de tegnilo tutto in sce ‘na man / o bello paisetto in meso ai boschi/. Il monte di Portofino, senza alberi, ma spruzzato di erica fiorita: O monte o va zù sensa un ærboo/ ma l’érica fiorïa/ a mette un sprusso pàllido into zerbo: Le cicale che all’improvviso riprendono a cantare sotto le stelle: Sott’a-e stelle, e çigae àn repiggiòu / torna a cantâ . Il gabbiano che all’arrivo dell’onda si solleva leggermente per evitarne l’impeto: Ma lê, tranquillo e beato / con a caressa de ae/ o te ghe scuggia de dato. Il canto dell’umile allodola: a fa o sêu nïo in tæra, a s’arsa e a canta. E il mare, immensa presenza dai mutevoli colori, in tutte le stagioni.

Ma Firpo non è solo poeta della natura, ha cantato la città nei suoi recanti più suggestivi; ha lasciato versi sofferti sulla guerra e sulla lotta partigiana, ma sempre con sobria compostezza, con intimo dolore, lacerante, ma espresso col pudore dei sentimenti che caratterizza la sua gente.

Impossibile dar qui conto della sua produzione ampia e variegata, ho cercato di fornire qualche esempio significativo della sua poetica e dei temi affrontati.

Il testo al quale ho fatto riferimento, che raccoglie tutte le composizioni ed è dotato di un buon apparato critico, è il seguente: Edoardo Firpo Tutte le poesie edizioni San Marco dei Giustiniani Genova 2004. Purtroppo le opere di questo poeta, il cui valore travalica l’ambito strettamente regionale, non sono di facile reperibilità.

Scrivo in dialetto
perché il mio mezzo espressivo più congeniale
perché sento in lingua genovese
in ra lengua zeneize
perché le pietre, le torri, il mare, il vento tra i pini
mi parlano in genovese.

(Edoardo Firpo)

I dialetti

Quande i foresti vêuan definï
O dialetto zeneize popolan
Dixan: – Che roba! o no se pêu sentï;
O fa sc-ciuppä da- o rïe finn- a un can!
O l’è gremïo de zü, de sciù, de xêu…
Oh che orribile gergo barbaresco!…-
Va ben: se permettei, me fasso fresco
e poi ne conto unn-a, caï figgeu
da dove risultiä comm’ò zà dito,
che o nostro, a mi o me pä fin ciù pulito.
Trovandome da poco in t’un negossio
Mentre aspetävo de vegnî servio,
discurrivan fra loro doe scignoe.
Unn-a a dixéiva a l’atra: – ‘l campanel,
qul de la porta, e poi qul del giardin,
qul del salotto e qul d’la camerera…-
A questo punto ò dito: – Bonna sera.-
e senza azzonze atro son scappòo.

Una garbata e ironica difesa del proprio idioma; qui la parlata dialettale esprime al meglio la sua espressività nel confronto con quella, altrettanto vivace, delle due signore piemontesi; l’aggettivo dimostrativo, ripetuto nella loro conversazione, viene per assonanza, fintamente frainteso, creando un effetto sobriamente comico. D’altra parte il ligure al massimo ridacchia, non si scompiscia dalle risate come diceva Totò.

Deluxion

A-a formidabile onda
che pâ chaa sfidde anche o çê,
gh’arobo un po de potensa,
ghe piggio un po da sò sc-ciumma.
No resta in man che un sorsetto
leggero comme unna ciumma,
amao ciù che che l’arfê.

La mareggiata, spettacolo tremendo e ammaliante della furia della natura. L’onda che sembra sfidare il cielo; una mano umana protesa ad afferrare un piccolo lembo di quell’energia spumeggiante e primordiale, per carpirne il segreto: ma sul palmo solo un sorso d’acqua di poco peso e amara. Una metafora senza enfasi, né moralismo, sulla caducità e l’inconsistenza delle cose anche di quelle che sembrano invincibili.

A vitta

Gh’o domandòu a un vegettin de l’Antoa
ch’o fava a guardia a-e pegoe:
Comme o se ciamma quest’oxellin che canta?
A l’è a laudrinn-a a l’è,
a fa o sêu nïo in tæra, a s’arsa e a canta.

Un quadretto idillico: un vecchio pastore che sorveglia le sue pecore; il canto di un uccellino, l’allodola, che fa il nido a terra e si leva in volo a cantare. In pochi versi, di parole semplici, il senso profondo della vita: anche l’uomo nato dalla terra può elevarsi col suo canto, quale che sia, verso il cielo a gioire di qualcosa di più grande.

Çigae

Gran maaveggia l’è stæta quella seja
Che inti olivi impregnæ se sô marin,
Sott’a-e stelle, e çigae àn repiggiòu
torna a cantâ…

La sera è calata dopo la giornata estiva, ma fra i rami degli ulivi, ancora imbevuti del caldo sole che si è specchiato in mare, le cicale ricominciano a cantare: un canto insolito, sotto le stelle, un desiderio di vitalità che si prolunga. Un’immagine lasciata all’interpretazione del lettore, perché nella “gran maaveggia” ciascuno di noi può vedere qualcosa di diverso.

Paisetto

Pâ de tegnilo tutto in sce ‘na man
o bello paisetto in meso ai boschi:
un nietto de fonzi berbexin.
Unna lamma de sô puntâ in sce lê
Pâ ch’a l’infie comme un tortellin

Un gruppetto di case, sembra un cespo di funghi, che può stare in un palmo di mano, un raggio di sole lo infilza come un tortellino. Un insolito, ironico paragone gastronomico. Berbexin, nome scientifico del fungo Grifola frondosa.

da Fiore in to gotto
…………………
Malinconia,
comme ciù fito do tempo
Ti desfi e cose do mondo!
Ma e primmaveje ritornan
e mi rinascio con lô.
Son comme o fiore in to gotto
che mentre o mêue cianin
pe ogni sô che ritorna
o se repiggia un pittin.

Malinconia e senso della precarietà della vita, tutte le cose del mondo sono destinate a dissolversi, ma il ciclo delle stagioni continua il suo incessante ciclo, e la primavera riporta un po’ di speranza. Come un fiore nel bicchiere anche il poeta si sente morire piano piano, ma basta un po’ di sole a farlo riprendere.

 

L’öchin

Ecco, pe-a fosca marinn-a
un’atra onda a s’avansa;
a gonfia, a s’addrissa, a s’inarca
comme unna chiggia de barca,
pâ che a se-o veugge aberâ.

Ma lê, tranquillo e beato
con a caressa de ae
o te ghe scuggia de dato.

Poesse fâ comme l’öchin,
pe ogni onda che arriva
arsame sempre un pittin.

Nella fosca aria marina le onde si inarcano minacciose a ghermirlo, ma l’imperturbabile gabbiano con un movimento leggero delle ali le schiva sollevandosi un poco; potessimo fare così anche noi!

Pëgi
Pëgi i to spegi
son nêuvi e son vegi
nêuva e antiga
ti te ghe spegi.

Limpidi e netti
son i mouxetti;
tepide e finn-e
son e collinn-e;
quelle to ville
verdi de pin
belle de seja
commea-a mattin.

Un bozzetto a pennellate rapide, quasi uno scioglilingua, per Pegli antica e nuova, onde limpide, tiepide colline, ville immerse nel verde dei pini.

Zena de nêutte da-i monti

Vegnî zù de seja da-i monti
fra e erbe ate e fiorïe
e a lunn-a deserta in sce-o mâ…
nuâ comme in mezo a de onde
dôve, in to poco barlumme,
e margheritte gallezzan
e investan comme de sc-ciumme…
e vedde Zena lontann-a
fra i monti scui e a marinn-a,
pösâ in sce l’aia do mâ…

Scendere di sera dai monti, in una sera di luna, fra l’erba alta e fiorita: sembra di nuotare fra le onde e le margherite ti investono come la schiuma del marina. In lontananza la città, sospesa nell’aria del mare.

L’eccidio di Cravasco

Cravasco 23 marzo 1945 ore 4 del mattino: 17 detenuti politici vengono uccisi per rappresaglia dopo un agguato nel quale sono morti nove tedeschi. Dal carcere di Marassi vengono  prelevati venti prigionieri politici, durante il trasporto  a Isoverde due fuggono, i restanti, condotti a piedi sono  fucilati, solo uno riesce a salvarsi.

Ai martiri de Cravasco

Quello strazetto da crave
fra stecchi nûi e spinoin
che verso a çimma o s’asbria,
a stradda a l’è ch’àn battûo
in quella tetra mattin.
Cianzéivan finn-a i rissêu;
cianzéiva l’ægua in to scûo
a-o fondo di canaloin…
Me pâ sentî i sò passi
luveghi comme un tambuo
lenti, che scûggian indietro
cö mutilòu in sce-e spalle;
ï veddo cazze, stä sciù…
perché stan sciù se fra poco
cazzian poi tutti lasciù!…
Han ciammòu Dio in aggiûtto
con ogni colpo do chêu
pe lô, pe-a so moæ, pe-i figgêu,
ma o fî o se fæto ciù cûrto
e a raffega a-a fin a l’à streppoù.
Perché in te grandi ingiustizie
Dio o l’è sempre lontan?
E çerco in gïo ai mæ passi
se un segno o fosse restòu;
no gh’è che i pochi fioretti
che in sce-o sentë n’han lasciòu,
poi un strassetto de fêuggia
secca ch’a sbatte a unna ramma…
Dunque o dolore o se perde
comme da sabbia in to vento?…
Ma in ta gran paxe di monti
se sente l’eco de l’ægua
lontann-a ch’ai ciamma, ch’ai ciamma…

La scena: l’aspro paesaggio dell’entroterra ligure; un sentiero ripido, da capre, che si inerpica sul monte fra stecchi spogli e spinosi,  ma Firpo usa il verbo s’asbria, che vuol dire slanciarsi, avventarsi rabbiosamente, detto del cane per esempio, o di chi è in preda all’ira. Un’immagine forte, questa della stradina che aggredisce l’asperità della salita, che rimanda alla fatica di chi l’ha tenacemente tracciata e alla violenza di chi ora vi trascina i prigionieri verso un destino di morte. I loro passi risuonano lugubri e lenti come colpi di tamburo, arrancano e qualcuno cade durante il cammino.  Nel mattino buio e tetro muovono a pietà anche i sassi del selciato e l’acqua nei canali, che sembrano piangere. Hanno invocato invano pietà, per se stessi, per la madre, per i figli. Hanno implorato un dio che  è sempre assente nelle grandi ingiustizie. Nulla di loro è rimasto in quel luogo, nessun segno che rechi traccia del loro dolore, perso come sabbia nel vento, solo qualche fiorellino e una foglia secca che sbatte contro un ramo. Ma ora che la pace è scesa sui monti si sente l’eco dell’acqua che ripetutamente li chiama.

Basterebbe questa lirica a mostrare che, quello che viene chiamato comunemente dialetto, è una lingua a tutti gli effetti, atta ad esprimere anche i sentimenti più elevati. In questo caso, come è nello stile del poeta e dell’uomo ligure, un dolore amaro, intimo, pudico quasi, che, vista l’inutilità dell’implorazione a un dio distante,  affida alla natura il compito del pianto e del ricordo.

Sant’Antonin

Sant’Antonin
survia Staggen
sêunna cianin
cianin …cianin
che no s’addescia
i Partigen…

Lascia che dorman
comme son morti
cö sacrifizio da zoventù;
che no s’accorzan
che zà se tenta
de seppelili
sott’a rumenta.

Quand’arrivià
quella mattin,

Sant’Antonin
survia Staggen
ti cantiæ l’inno
di Partigen.

Campo dei partigiani cimitero di Staglieno

L’affronto alla memoria di chi ha dato vita e giovinezza per la libertà di tutti è constatato con profonda amarezza, ma senza risentimento. La campana della piccola chiesa di Sant’Antonino suona piano per lasciarli al loro sonno tranquillo, e perché  non sappiano di quell’offesa canterà il loro inno.