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Via Gobetti: (1)Tugnìn – Racconto a puntate di Pier Guido Quartero

LA DOMENICA DEL PONENTINO
Rubrica settimanale di Narrativa e Peosia

VIA GOBETTI

TUGNÌN

[Di Pier Guido Quartero]

Voi dite che per parlare di Genova come era una volta si può anche parlare di una sessantina di anni fa, quando io ero poco più che un bambino? Io ci provo, per oggi, poi magari torno più indietro. Voi, comunque, dateci un’occhiata: magari, a guardarci bene, potreste finire per trovarci personaggi e situazioni che poi sono tornati dentro ad altre storie.

Avrò avuto tre o quattro anni, quando ci trasferimmo nella casa gialla, in Via Gobetti. Quelle case lì, la casa gialla e la casa rosa, le avevano costruite due cooperative, i cui soci erano soprattutto dipendenti del Comune. Erano nella parte bassa di Albaro, sotto alla Valletta Cambiaso e sopra alla Villa Gaslini: uno dei trionfi Coppedé che si affacciano su Corso Italia e sul mare.

La Valletta, allora, era ancora abitata da famiglie contadine, e io ricordo di aver visto cavalli, mucche e maiali, che però sparirono nell’arco di una diecina d’anni, quando venne realizzato un parco con campi da tennis gestiti dal CONI e, a fianco a questo, una serie di palazzine più eleganti delle nostre, abitate in prevalenza da professionisti: Via Pirandello.

Come avrete capito, si trattava di un’area in via di rapida trasformazione, ancora semiagricola quando ci arrivammo noi, ma destinata a divenire zona residenziale per piccoli borghesi e aspiranti tali, ciò che in quei tempi di ricostruzione e poi di miracolo economico accadeva abbastanza di frequente.

La trasformazione, tuttavia, non avvenne in modo omogeneo, e due furono soprattutto i punti di resistenza: Tugnin e il Campetto. Oggi vi racconterò di Tugnìn.

Tugnin e la Catte avevano la loro abitazione nei locali di una antica scuderia del tempo dei Savoia, qualificata come monumento nazionale. Nei primi anni in cui eravamo arrivati, lavoravano un pezzo di terra abbastanza ampio, tenuto in parte a orto/frutteto e in parte coltivato a erba medica, per le bestie. La loro presenza era motivo di grande soddisfazione per la mia nonna materna, classe 1890, che dirigeva con pugno di ferro la nostra vita domestica. E qui occorre una rapida spiegazione: meno di due anni dopo che ci eravamo trasferiti nella casa nuova, mio padre morì in un incidente d’auto mentre si recava a Roma per lavoro; ciò impose che mia madre si trovasse rapidamente una sistemazione per mantenere la famiglia e peraltro che qualcuno la sostituisse per occuparsi della casa e dei due bambini ancora in età prescolare (già: avevo anche un fratellino: ne parleremo a tempo debito). Ma torniamo a Tugnìn.

Dicevo che la nonna era felicissima di avere sotto casa qualcuno da cui acquistare verdura e frutta. Tenete presente, per fare un esempio, che allora i pomodori si mangiavano solo d’estate e che i peperoni si trovavano si e no per un mese, e quindi il rapporto diretto con un produttore era un bell’aiuto, sia per avere le primizie che per essere sicuri della qualità di ciò che si acquistava. Il guaio per me e il mio fratellino, era che la vecchia, donna fin troppo bene in carne e poco propensa a fare su e giù per le scale, ci utilizzava come garzoni per gli acquisti, e spesso accadeva che, nel momento in cui rientravamo dalle nostre missioni, le venisse in mente qualcosa che aveva dimenticato: < Ah, Peo, me sun ascurdà de dite de piggià un po de insalatta. Vanni un po turna zu da o Tognin e digghe che o te ne dagghe un po de quella da cheuxe e un po de quella da magià crua, s’o ghe n’ha>. Era un bel tormento, per noi, che aspettavamo solo il momento per precipitarci giù per le scale, saltando tre o quattro gradini alla volta, diretti al campetto e alle interminabili partite a pallone in cui ci impegnavamo fino all’ora di cena.

Tognin, antico genovese di poche parole, era attaccato alla terra nello spirito e nel corpo, segnato dal lavoro quotidiano. Oggi, con le nuove tecnologie disponibili, lo diciamo quasi per scherzo, che la terra è bassa, ma allora, quando per mancanza di attrezzi e di palanche il lavoro si faceva quasi solo con la zappa e la vanga, il fisico del contadino si trasformava nel tempo fino a diventare storto e asciutto come il tronco degli ulivi. E Tugnìn era proprio così, secco e contorto, con la schiena piegata, quasi parallela al terreno, e il peso della testa, alzata in avanti per controllare il percorso davanti a sé, compensato dai gomiti delle braccia alzati dietro alle spalle, simili a un paio di magre ali che lo facevano assomigliare a un vecchio uccello di rapina.

C’era una vena d’acqua sotterranea, nei campi che lavorava, e un pozzo dal quale attingeva, ma ancora adesso non sono sicuro di aver capito se si trattasse di terra buona o no. Ricordo bene, durante una esplorazione estiva, di essere stato sorpreso, mentre andavo a caccia di farfalle cavolaie tra le zolle di un campicello appena zappato, dalla presenza, nel terreno, di diversi gusci di vongole, di patelle e di ronsezzi (non so come si chiamano in italiano). Non ho mai capito se la loro presenza fosse dovuta a qualche forma di bradisismo naturale o magari a qualche sbancamento in occasione dei lavori per Corso Italia, ma mi sembra molto più probabile la prima.

La moglie di Tognin, a Cattainìn, era abbastanza simile a mia nonna, e infatti si intendevano molto bene, nelle rare occasioni in cui si incontravano, e tutte le volte tornava a raccontarle di suo figlio (o maè Bertìn, ch’o gh’ha o banco in scio mercòu) e di quella volta che era andata a chissà quale festa di paese e aveva giocato a bocce e aveva anche vinto una medaglia che ci mostrava con sommo orgoglio. Negli ultimi anni, o sò Bertìn le aveva comprato un appartamentino vicino a Boccadasse: Tognìn continuava a venire a lavorare la terra e andò avanti così fino alla fine. Lei invece non la vedemmo quasi più: una volta, con la nonna, andammo a trovarla, e l’ultimo ricordo che ho di lei è che ci offrì un pezzetto di pandolce e poi volle farci assaggiare anche un po’ di vino bianco: l’aemmo faeto niatri… Sarà anche stato genuino, ma devo dire che non ne ho un gran ricordo…

La Prossima settimana: Via Gobbetti – (2) La Romana