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I racconti del Blue Avana – (11) Dritti

La “Concessionari di Automobili Pubbliche – Società Cooperativa a Responsabilità limitata“, cioè la società che raggruppa buona parte dei tassisti genovesi, ha compiuto nel 2013 i cento anni di attività. Questi, che pubblicheremo a puntate, seguendo la sequenza dei capitoli del libro Blue Avana. 100 anni di taxi a Genova di Pier Guido Quartero, pubblicato con l’editore Liberodiscrivere nel 2013, sono gli episodi più curiosi e quelli più significativi narratici dai tassisti genovesi, in attività o in pensione. Dalla calda vita della Via Pré degli anni ’50 alle corse in ospedale per salvare vite umane, dagli anni di piombo ai clienti strambi, taccagni o fin troppo generosi, dai personaggi del calcio e dello spettacolo alle lotte sindacali. Il tutto narrato attraverso le chiacchiere di una combriccola di amiconi, creati ad arte dall’autore, che perdono un po’ del loro tempo al Blue Avana: un locale come non ce ne sono più…

Dritti (Come viaggiare a sbafo, ma stando attenti a non esagerare)

Pier Guido Quartero

Ve l’ho detto che al Blue Avana è raro che ci passi qualcuno che non è un cliente abituale. Naturalmente, però, qualcuno ci viene, e noi, poi, quelli di noi che sono lì, intendo, cerchiamo di capire chi è, perché è venuto e tutto questo genere di cose.

E l’altro giorno io non c’ero, ma me l’ha raccontata il Riccardo, quello che si allena da solo al biliardo ma le partite non le gioca perché se no ha paura di perdere. Va beh. Lui era lì al banco a be-re una birra e scambiare due chiacchiere con Aldo, che è il titolare, perché il biliardo lo avevano occupato altri due che stavano pro-vando una partita e lui ne approfittava per distrarsi un po’, e te lo lì che arriva questo tipo con una faccia losca da morire. Uno di quelli che, appena li vedi, ti preoccupi subito di capire come po-trebbero fare a fregarti e ti tocchi bene la tasca dove tieni il porta-foglio, per essere sicuro che sia ancora lì, anche se quello è magari anche a dieci metri da te, e soprattutto per essere sicuro che ci re-sti.

Quando Riccardo ha cominciato così, io gli ho subito confessato una cosa: che tendenzialmente io sarei un progressista e un sincero democratico, ma mi porto dietro un grave difetto: secondo me quel Lombroso che diceva che i delinquenti si riconoscono dalla faccia non aveva tutti i torti. Non sto a dire che tutti quelli che hanno la faccia da gangster poi sono dei gangster per davvero, e soprattutto ammetto volentieri che ci sono fior di personaggi che dietro a una faccia d’angelo nascondono un cuore da autentici figli di puttana, ma insomma, quando uno ha una faccia che è tutta un programma, io non mi fido. Nel caso di specie, comunque, le cose andarono nel modo che dico io.

Questo tizio, avvicinatosi al banco con aria furtiva, si rivolse ad Aldo, mettendogli sotto al naso un orologione tutto luccicante.

– L’ho trovato per la strada – gli disse – ma ho la dannata sfortuna di essere un pregiudicato e, se mi becca la madama con questa ro-ba addosso, come faccio a raccontargli che non l’ho rubato? Così, mi chiedevo se una persona come si deve come lei, che certamente non ha il mio passato sfortunato ed è in ottimi rapporti con la legge, non sarebbe disposta a riconoscermi una cifra pari a, dicia-mo, un trenta per cento del valore di questo orologio che, al mio occhio abbastanza esperto, può valere intorno ai duemila cinque-cento euro. Se lei mi desse un nove o ottocento euro, potremmo concludere un affare di reciproca soddisfazione.

Aldo, credo di avervelo già detto, ai suoi tempi d’oro faceva il tas-sista, e quindi ha una certa conoscenza del mondo e certi bidoni non se li lascia fare. Ma è stato il modo signorile come ha liquida-to il lombrosiano che ha particolarmente colpito Riccardo, che me ne ha parlato grondando ammirazione da tutti i pori.

– Dunque, egregio signore, – ha detto Aldo al tipo losco senza perdere un filino del proprio aplomb – Io credo che possiamo addi-venire ad un accordo meno redditizio per entrambi, ma certamen-te più confacente a due cittadini intemerati. – E qui, a sentire Ric-cardo, l’espressione del cliente di passaggio si era già assestata sul livello della depressione – Ora glielo dico io cosa possiamo fare, caro amico. Posto che in caso di rinvenimento di un oggetto di valore il proprietario che ne rientra in possesso è tenuto a sborsare al ritrovante una certa percentuale del valore dell’oggetto stesso, io le propongo, qui sui due piedi, di telefonare ai vigili del quartiere, segnalando detto ritrovamento. Onde evitarle qualunque tipo di guai, sarò io stesso ad addossarmi la responsabilità dell’accaduto, ma naturalmente lascerò a lei di beneficiare della percentuale di cui sopra o, nel caso, di divenire il proprietario definitivo di un così prezioso oggetto, nell’ipotesi, invero abbastanza lontana, che un proprietario non si presenti a reclamarlo.

E, così facendo, si è frugato in tasca alla ricerca del cellulare, men-tre nel frattempo allungava la mano per prendere l’elenco telefoni-co. Riccardo era piuttosto divertito, mentre mi raccontava della velocità da furetto con cui il tizio con la faccia da delinquente è sparito dal locale, lasciando dietro di sé solo un piccolo vortice d’aria.

Va quasi da sé che, quando questo fatto mi è stato raccontato, io ero appollaiato su una sedia girata al contrario, con le braccia ap-poggiate alla spalliera e il mento appoggiato alle braccia, e stavo contemplando la precisione e la maestria dei colpi che Riccardo metteva a segno uno dietro l’altro esercitandosi per quando deci-derà finalmente di giocare una partita contro qualcun altro. Così, quando l’esposizione è giunta al termine, non ho potuto esimermi dall’alzarmi dalla mia posizione e spostarmi nell’altro vano del locale, quello con il bancone di zinco, per esprimere ad Aldo (il quale aveva seguito tutta la narrazione, per essere sicuro che nulla ne sfuggisse, del suo eroico comportamento, mentre fingeva di mettere a posto le bottiglie), per esprimergli, dicevo, tutta la mia approvazione per il suo comportamento esemplare nella difficile situazione che aveva dovuto affrontare.

– Questo non è nulla – mi ha risposto l’amico, modesto come sem-pre. – I truffatori, proprio per la natura un po’ teatrale del loro mestiere, hanno una predilezione per il taxi, che risulta comunque una componente scenografica di un certo tenore, se si vuole getta-re fumo negli occhi a qualcuno. Il guaio è che, oltre ad adoperarli per costruirsi un’aura di signorilità e ricchezza, spesso, essendo in realtà dei miserabili che vivono di espedienti, finiscono per trovare qualche mezzuccio per non pagare neanche la corsa. Per esempio, mi ricordo di un tale, uno che ci sapeva fare. Un giovanotto par-lantino. Uno di quegli spirlincini che saltellano di qua e di là e non è ben chiaro cosa stiano combinando e quando lo capisci ce l’hai già sotto la coda. Per fortuna non è capitata a me, questa, ma a un mio collega, anzi a più di uno, perché il gioco l’ha ripetuto.

– E’ strano – gli ho detto io ad Aldo, rimanendo però in un atteg-giamento di assoluto rispetto – questo fatto che quando c’è una cliente che chiama per farsi portar giù la valigia e poi invece si fa trovare sulla porta con indosso solo un négligé trasparentissimo, la cosa è sempre successa a quello che hai davanti, mentre se si è trattato di fare la figura del fesso, di solito la figura l’ha fatta uno che non è presente. Ci hai mai fatto caso?

Aldo mi ha guardato dall’alto in basso, lisciandosi i baffi, e poi si è girato verso le bottiglie e si è messo a passare lo straccio sugli scaf-fali di vetro, che però non ne avevano bisogno perché erano già pulitissimi, dicendo:

– Beh, se non ti interessa…                                                                                                                      

E naturalmente io ho dovuto correre ai ripari, perché una buona storia è una buona storia, anche se ti raccontano qualche balla a proposito di chi ne sia stato l’effettivo protagonista. Così ho co-minciato dicendo che l’avevo detto tanto per dire qualcosa e poi gli ho giurato che per me quello che lui dice è vangelo e, alla fine, l’argomento decisivo è stato quando gli ho detto che la parola di uno che si era comportato come lui, davanti all’imbroglione lom-brosiano, non poteva essere messa in discussione. Questo com-plimento lo ha un po’ rabbonito e così si è deciso a riprendere il filo del discorso.

– E dunque, ti stavo dicendo, c’era questo spirlincino. Abitava, credo, dalle parti di Oregina, perché poi il taxi lo prendeva sempre lì intorno. Era elegantino e tutto comme il faut, con il suo abitino col panciotto, come usava negli anni ’90, quando imperversavano i venditori di fondi, e lui aveva proprio quell’aria un po’ troppo informata e un po’ troppo moderna e insomma un po’ troppo e basta che avevano quei ragazzi lì a quei tempi lì. E questo ha co-minciato presentandosi su un posteggio e chiedendo a quello di turno (che non ero io, ha tenuto a precisare, guardandomi negli occhi e lisciandosi i baffi) se poteva dargli la disponibilità per l’intera giornata, perché per una vicenda sfortunata di cui non aveva nessuna colpa gli avevano sospesa la patente e lui doveva curare una quantità di affari nel quadrante nordoccidentale, che era la sua area di competenza e ticchete tì e ticchete tà. E natural-mente, il collega interpellato era abbastanza soddisfatto, perché con uno così si faceva la giornata e anche bene. Così questo co-mincia a farsi portare in giro e ogni tanto scende e dice: “Starò via venti minuti”, e dopo venti minuti arriva, puntuale come un oro-logio, e poi dice: “Starò via un’ora” e dopo un’ora, tacchete che arriva. E via così per un pezzo, e piano piano si allontanano fino a Varese. A Varese sbriga tutto in un quarto d’ora e poi, quando torna in auto, dice: “Finalmente abbiamo finito: devo ancora si-stemare una cosa una mezz’oretta quando torniamo a Genova e poi si va a casa. Per piacere, veda di orientare il rientro tenendo conto che devo chiudere la giornata con un piccolo incontro in zona Brignole. Così arrivano davanti alla stazione quando sono le sette di sera e lui dice: “Mi aspetti qua. Torno tra mezz’ora”. Pec-cato che poi invece passa mezz’ora, passa un’ora e questo si era fatto una giornata a sbafo su un taxi e poi si era preso l’autobus e se n’era tornato a casa bello tranquillo, senza colpo ferire.

– E tu dici che l’ha fatto più di una volta? – Ho chiesto io.

– Sicuro, e questo vuol dire che, più che un truffatore vero, era un pasticcione, perché una volta va bene, la seconda anche e magari anche la terza, ma insomma, il truffato rischiava di rimetterci an-che una milionata su un colpo così e quindi poi la voce comincia a girare e la categoria comincia a puntarlo e un bel giorno questo arriva e la collega (non ero io neanche stavolta, era una collega donna, mi ha detto calcando bene le parole, per farmi capire che non si prende le brutte figure ma non si prende neanche i meriti), la collega, dico, lo carica e lo porta in un punto dove c’erano i vi-gili e glielo presenta: “Ecco qua il truffatore di Varese”. Perché, questo, sempre a Varese andava. E poi si è anche scoperto il per-ché: siccome aveva avuto una condanna, aveva l’obbligo di firma a Varese, e non aveva trovato di meglio che farcisi portare in taxi.

– Proprio uno che ci sapeva fare. Ma io sono sicuro che tu di sto-rie di imbroglioni grandi e piccoli ne avrai a bizzeffe.

– E’proprio così, e per dimostrarti che so stare al gioco ti raccon-terò del bidone che hanno fatto e me. Non una cosa grandiosa, ma intanto ci resti sempre male.

– Conta.

– Questa l’ho caricata all’aeroporto e si è fatta portare fino ad Alessandria. La solita signora distinta con i suoi capelli in ordine e il tailleur e un filo di perle al collo e una borsa grande, tipo Vuit-ton, e una più piccola. Del tipo che viaggia per affari.

– Mi rendo conto.

– L’ho presa su di mattina, così siamo arrivati ad Alessandria che sarà stato più o meno mezzogiorno e lei, con un po’ di ritegno, mi è parso, perché così mi faceva capire che non era solo una donna d’affari ma anche una che si occupava della casa, mi ha chiesto di fermarmi davanti ad un supermercato, dato che doveva fare un po’ di spesa. Poi è scesa, lasciandomi la borsa di Vuitton sul sedile posteriore e si è infilata dentro ai grandi magazzini.

– E poi? – Ho chiesto io con un sorrisone.

– E poi è inutile che sfotti. Se n’era uscita da un’altra parte.

– E la borsa di Vuitton?

– Dai, che l’hai già capito: era una patacca. E, per di più, piena di fogli di giornale tutti appallottolati.

– Ti ha fatto venire i nervi?

– Se vuoi, puoi dirla così, ma io la direi più pesante. Comunque non sono solo i clienti che barano. Qualche volta barano anche degli altri, come quella volta a Parma.

– E’ un’altra storia?

– Sì. Ed è l’ultima, perché tu stai qui a passare il tempo, ma io poi devo mettere a posto, che è ora di chiudere.

– Dai.

– Come ti stavo dicendo, questa mi è successa a Parma. Avevo pre-so in porto una famiglia che era scesa dal Constitution. Ne veni-vano dagli Stati Uniti e probabilmente erano emigrati o figli di emigrati, che tornavano a salutare i parenti. Infatti sembravano conoscere abbastanza i posti, e parlavano un discreto italiano. Come ti stavo dicendo, li ho caricati sull’automobile in tre, marito, moglie e bambino e loro mi hanno detto subito di portarli a Par-ma, e io mi sono dato da fare. Ora non mi ricordo più bene quan-to ci abbiamo messo, con le fermate in autostrada per la signora che doveva fare la pipì e il bambino che pativa un po’ l’auto e ogni tanto era meglio farlo scendere, comunque ci avremo messo tre ore ma siamo arrivati. Loro, comunque, anche se forse erano ve-nuti per trovare dei parenti, avevano prenotato in un albergo, e doveva essere un posto dove li conoscevano, perché li hanno ac-colti con grande cordialità e insomma, sembrava che fossero gente di famiglia. Io, intanto, avevo cominciato a scaricare i bagagli e c’era il ragazzo dell’albergo che se li tirava dietro che erano più pesanti di lui e mi faceva un po’ pena, così, nel mentre che aspet-tavo che mi pagassero, gli ho dato una mano a portare dentro due valigie più grosse. Poi, mentre eravamo lì nella hall, il marito mi ha fatto un segno di saluto, con uno di quei sorrisi da americano, e mi ha fatto segno di mettermi d’accordo per il pagamento con il concierge, e se andava bene per lui, figurarsi per me. Era proprio evidente che avevano molta confidenza se lui si faceva regolare i conti dal concierge dell’albergo. Questo era uno di quei tipi con tut-ta la loro bella brillantina in testa e la divisa elegante da direttore del circo e le scarpe di cuoio lucido nero e pensa un po’ se non mi guardava dall’alto in basso in quel modo che hanno quelli che non contano niente quando credono di aver fatto chissà che carriera.

– Quande a merda a monta o scǽn … – Ho osservato io, comprensivo, mentre con una mano facevo il gesto di turarmi il naso.

– Appunto. E questo bel tomo mi fa: “Quant’è?” e io gli dico qualcosa come “Centomila”, ora non mi ricordo perché è passato un bel po’ di tempo, ma facciamo che gli abbia detto centomila, e lui: “Sulla ricevuta scriva pure centocinquanta, caro.” E allora io mi sono detto: “Questi americani sono proprio americani: non badano a spese, e il concierge li conosce e mi dà una mancia genero-sa perché loro sono certamente d’accordo”. Così il concierge ha co-minciato a diventarmi un po’ più simpatico, anche se mi aveva chiamato caro, e a me quelli che mi chiamano caro senza neanche sapere come mi chiamo cominciano già a farmi girare le balle, e gli ho preparato la ricevuta, ma per fortuna che non gliel’ho data, perché questo mi dà un biglietto da cento e poi allunga la mano per il reçu. Hai capito il simpaticone? Mi faceva fare l’esoso a me per farsi la sua crestina lui, il dritto. Così gli ho fatto un’altra rice-vuta, da cento, e la prima l’ho annullata, e me ne sono andato bel tranquillo, lasciandolo lì impalato con un palmo di naso

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