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I racconti del Blue Avana – (8) Pronto soccorso

La “Concessionari di Automobili Pubbliche – Società Cooperativa a Responsabilità limitata“, cioè la società che raggruppa buona parte dei tassisti genovesi, ha compiuto nel 2013 i cento anni di attività. Questi, che pubblicheremo a puntate, seguendo la sequenza dei capitoli del libro Blue Avana. 100 anni di taxi a Genova di Pier Guido Quartero, pubblicato con l’editore Liberodiscrivere nel 2013, sono gli episodi più curiosi e quelli più significativi narratici dai tassisti genovesi, in attività o in pensione. Dalla calda vita della Via Pré degli anni ’50 alle corse in ospedale per salvare vite umane, dagli anni di piombo ai clienti strambi, taccagni o fin troppo generosi, dai personaggi del calcio e dello spettacolo alle lotte sindacali. Il tutto narrato attraverso le chiacchiere di una combriccola di amiconi, creati ad arte dall’autore, che perdono un po’ del loro tempo al Blue Avana: un locale come non ce ne sono più…

Pronto soccorso (Questa volta sono casi fortunati, soprattutto il primo…)

di Pier Guido Quartero

Eravamo lì, l’altro giorno, al Blue Avana, sapete, quel bar che c’è sotto casa mia, e stavo spiegando a Aldo la ricetta del Gimlet se-condo Raymond Chandler, che è il mio autore di gialli preferito. Di colpo è entrata dalla porta una donna, avrà avuto una trentina d’anni ed era piuttosto carina, di quelle col nasino girato in su e le efelidi tutto intorno e tutte le sue cose al loro posto, e ci ha guar-dato come se fossimo la Madonna della Guardia e si è appoggiata al banco come se non avesse più forze e stesse per cadere e poi ha alzato un bel braccino rosa, il più bel braccino rosa che io abbia visto, da qualche anno a questa parte, e ci ha fatto vedere che si era fatta un taglio sul braccio.

Ora, che fosse un taglio non si discute, sarà stato lungo due o tre centimetri e buttava anche un po’ di sangue ma, anche a essere una ragazza con le efelidi e un bel braccino rosa, non mi sembrava che fosse il caso di fare tutta quella scena. Aldo, che è più bravo di me, in certe cose, ha subito bagnato uno straccio pulito con un po’ d’acqua e le ha nettato la ferita. Poi ha detto:

– Signora, io qua di disinfettanti che non bruciano non ne ho ma, se vuole, di là c’è un po’ di cotone e di alcool denaturato e dei ce-rotti.

Lei ha fatto una faccia come se dovesse andare al patibolo, ma poi ha deciso che doveva essere una piccola donna coraggiosa e ha assentito con la testa, stringendo le labbra, che, per inciso, erano proprio due labbra carine, come tutto il resto.

Io intanto, che non sapevo bene cosa fare ma un po’ di psicologia la so sempre usare, ho pensato che, mentre Aldo andava a prende-re la cassetta degli interventi medici, bisognava aiutare la ragazza a distrarsi e a non pensare al sangue, così ho cercato di farla parlare: lo sapete anche voi, credo, che le femmine, se possono un po’ par-lare, stanno sempre subito meglio. Così le ho chiesto come aveva fatto a farsi quel brutto taglio e forse non sono stato proprio tanto psicologo, perché lei è subito diventata verde e allora io ho dovuto sostenerla, e ho sentito che, anche se era debole, aveva un bel cor-picino sodo e lei si è rimessa subito bella diritta, che a me è anche dispiaciuto un po’, perché l’avrei sostenuta volentieri ancora un po’. Comunque alla fine la cosa ha funzionato perché lei si è messa a parlare e dopo un po’ nessuno la fermava più: perché si era ap-poggiata a un vetro senza accorgersene e si era tagliata e aveva paura di essersi infettata e forse avrebbe dovuto andare al pronto soccorso e io ho pensato che peccato che non c’era Gianni che se no potevamo portarla noi e magari, durante il viaggio, io conti-nuavo a sostenerla e continuavo anche a sentire quel buon profu-mo che aveva addosso.

Va beh. Poi è arrivato Aldo e ha assunto lui il controllo della si-tuazione e le ha fatto la medicazione proprio a regola d’arte, come se invece di aver fatto prima il taxista e poi il barista per tutta la vita, invece fosse un medico o un infermiere provetto, di quelli col camice e tutto il resto. Così poi la signora se ne è uscita e non so neanche se poi c’è andata, al pronto soccorso, perché ve l’ho detto che la medicazione di Aldo era perfetta e lei ormai era bella tran-quilla e quando si è avviata, dopo che lui le aveva galantemente offerto un caffè corretto per tirarla un po’ su, gli ha anche fatto un bellissimo sorriso. E poi, uscendo, mi ha fatto ciao ciao anche a me, con la manina del braccio sano, ma non so se, nel caso che ci incontrassimo ancora, mi riconoscerebbe. Quello che so è che io riconoscerei lei.

Ora, voi mi chiederete dove è che voglio andare a finire con que-sto discorso. Il fatto è che, da quando sono in pensione e ho pro-vato per un po’ a fare il consulente del lavoro, ora mi sono stufato e faccio due cose: delle lunghe passeggiate per Genova, a studiarmi le periferie, che c’è sempre qualcosa di bello da scoprire, e delle belle chiacchierate con i miei amici del Blue Avana, che è questo bar sotto casa mia. Così, quando la ragazza è uscita, ho fatto i miei complimenti ad Aldo per come aveva gestito tutta la situazione con grande professionalità e lui si è un po’ gonfiato, perché i com-plimenti fanno sempre piacere, e mi ha versato due dita di limon-cino senza neanche che io gliele avessi chieste, che vuol dire che poi non me le mette sul conto, e mi ha detto:

– Caro mio, quando uno fa un certo lavoro, deve essere capace ad affrontare tutte le emergenze. Se dovessi raccontarti di tutte le volte che io o qualche mio collega abbiamo dovuto fare degli in-terventi veloci per aiutare qualcuno che stava male, non bastereb-be il tempo da qua a domani mattina.

Io ho guardato l’ora, sull’orologio a pendolo che c’è appeso sopra al juke box, quello che non funziona, il juke box voglio dire, non il pendolo, e gli ho detto che magari fino a domani no ma, se ave-va voglia di raccontarmi qualcuna di quelle storie lì, beh, allora aveva trovato la persona giusta; perché forse lui non se ne era an-cora accorto, perché io sono un tipo riservato, lo dicono tutti, ma a me piace da morire stare a sentire delle storie, soprattutto se so-no buone.

Subito non ha potuto raccontarmi niente, perché poi sono arrivati un po’ di clienti, uno dopo l’altro, e chi voleva un caffè e chi vole-va una spuma o un biancamaro o magari un prosecchino o addirit-tura un Negroni con le sue patatine e le sue olive. E’ arrivato an-che il Gianni, che è un altro tassista, ma lui è ancora in pista e vie-ne solo quando è fuori turno e non ha voglia di andare a casa da sua moglie che lui dice che gli fa sempre una testa così.

Quando l’onda è passata, che quel po’ di clienti ha portato i suoi soldini nella cassa di Aldo, ci siamo seduti a un tavolino, lì davanti al bancone, tutti e tre, e Aldo ha raccontato a Gianni della ragaz-za, in un modo diverso da come l’ho raccontata io, perché natu-ralmente lui nella sua storia faceva una figura ancora migliore di quella detta da me e invece io era quasi come se non ci fossi stato, anche se alla fine la ragazza ciao ciao con la manina me lo aveva fatto, ma lui non glielo ha detto e io ho lasciato perdere, anche perché a me interessava sentire qualcuna delle storie che mi aveva promesso. E ho fatto bene, perché alla fine gli è venuto in mente e si è messo a raccontare.

– Questa è successa a me diversi anni fa, quando San Lorenzo non era ancora pedonalizzata. La gente, adesso, non si rende più conto di cosa era il traffico allora. Se gli dicessi a uno dei ragazzi che circolano adesso e che trovano che tutto fa schifo, e magari per tanti versi hanno anche ragione, che c’è stato un periodo in cui gli autobus passavano perfino in Via Garibaldi, ti direbbero che sei matto. E invece era proprio così e, dato che le corsie preferenziali non c’erano ancora, o comunque ce n’erano molte di meno di adesso, muoversi lì in mezzo era veramente una bella prova di abilità. In qualche caso urgente, soprattutto se c’era di mezzo la salute di una persona, qualcuno di noi ha addirittura richiesto, attraverso la centralina del radio taxi, di avere la scorta dei vigili per farsi dare la precedenza. Il problema, poi, era stare dietro a quelle moto, perché andavano come matti, senza guardare incroci, precedenze e semafori, e ti conveniva stargli bene attaccato dietro, se no rischiavi grosso. Va bene. Allora, tornando a noi, come ti dico, io ero sul mio taxi, affiancato al marciapiede in San Lorenzo e ti vedo questo qua che lavorava in un portone e faceva le pulizie. Sai, uno di quei portoni delle case di San Lorenzo, che ora sono diventati quasi tutti dei gioielli, ma allora avevano un’aria molto più triste, che parevano quasi degli androni, anche se per farli ve-nire belli sarebbe bastato fargli solo un po’ di manutenzione ben fatta. E allora, come ti dico, ero lì che lo guardavo e lui era su una scala e a un certo punto vedo che viene giù. Forse si era sporto troppo o gli era scivolato un piede o tutt’e due, ma insomma, que-sto viene giù e quasi si pianta su un’asta di ferro del cancello. Io sono saltato subito dalla macchina e sono corso a vedere, e c’erano anche delle altre persone e questo disgraziato aveva uno squarcio nel fianco, sotto al costato, da fare paura, ma per fortuna siamo riusciti a fargli subito una fasciatura e lo abbiamo caricato nel taxi e poi via di corsa verso San Martino. Via di corsa si fa per dire, perché in quel casino non era facile muoversi, ma con quello die-tro che teneva il ferito e uno vicino a me che teneva fuori il fazzo-letto e io che suonavo il clacson all’impazzata, insomma, siamo riusciti a farci strada e poi, da Piazza Alimonda in là, è diventato tutto più scorrevole e siamo arrivati in tempo.

– E il tizio? Se l’è cavata? – Ho chiesto io.

– Io ero tranquillo, perché la mia parte l’avevo fatta, e non mi sono neanche informato di come era andata a finire, ma poi è successo che due mesi dopo, o forse anche un po’ di più, mi suona alla por-ta di casa questo ragazzo, che ormai era guarito abbastanza da poter circolare in città, e viene su dalle scale con un suo amico e portavano una botticella di vino che sarà stata una cinquantina di litri e mi dice: “Vede? Sto meglio. Per fortuna che c’era lei lì sotto, se no morivo dissanguato prima di arrivare all’ospedale. Mi sono informato in cooperativa e ho chiesto il suo indirizzo. Dicono che il buon vino fa sangue e questo è vino che fanno i miei, giù in Ca-labria. Spero che le faccia pro.

– Era poi buono, quel vino? – ha chiesto Gianni, ma si vedeva che sapeva già la risposta.

Aldo ha fatto una smorfietta: – A quei tempi, soprattutto in meri-dione, il vino si faceva ancora abbastanza male. Genuino lo era di sicuro, e aveva anche una gradazione che potevi usarlo come di-sinfettante. Il sapore poteva essere migliore, ma il fatto che chi me lo ha portato si fosse salvato la pelle e avesse pensato di dovermi ringraziare me lo ha reso comunque gradevolissimo, anche se Gianni, che a quei tempi ci conoscevamo già, dopo che gliene ho offerto un bicchiere, ha cominciato a prendermi per il culo e, co-me vedi, continua ancora.

Gianni ha alzato le spalle: – Io ti prendo in giro perché ti voglio bene. Ora raccontagli quella della notte delle partorienti, che poi gli racconto io quella di Calimero.

Dovete sapere che i tassisti amano chiamarsi con dei soprannomi: c’era uno che si chiamava Buscetta, perché era pentito. Di cosa si fosse pentito non me l’hanno detto, ma sta di fatto che si chiamava Buscetta. Poi c’era “O mâdûcòu”, che si spiega da solo e “O bacìllo” e “O mentìn”.

Tutto questo per dire che Calimero è un altro soprannome: di uno piccolo e nero, che aveva tutti i suoi capelli neri anche quando ormai aveva passato i settant’anni, ma la storia di Calimero me l’ha raccontata Gianni alla fine della serata. Se andiamo con ordine, prima vi devo raccontare quello che mi ha detto Aldo.

– Tu che ti sei agitato per quel taglietto che c’aveva quella ragaz-zotta oggi pomeriggio (non era vero che mi ero agitato, ma a Aldo piace sempre pensare che lui è l’eroe delle situazioni e io glielo lascio credere), tu che ti sei agitato, non hai idea di cosa voglia dire quando ti capita di portare delle donne che devono partorire. Non tutte le volte, naturalmente, ma ci sono dei momenti che preferire-sti essere da un’altra parte. Tante volte va tutto liscio e le signore stanno bene e sono tranquille. In quei casi lì, magari, quello più nervoso è il marito: saltano come grilli ed è evidente che non han-no la minima idea di cosa fare, oppure hanno fatto il corso e han-no studiato tutto il manuale e continuano a spiegare a quelle po-vere donne cosa succede e cosa dovrebbero fare e allora a me mi fanno pena quelle poverette, che devono andare a fare una cosa che noi uomini moriremmo solo a pensarla e per di più gli tocca anche dar retta a quei belinoni lì, che hanno solo bisogno di una mamma che li tenga buoni e gli dica di stare tranquilli.

– Va beh – ho detto io – ci siamo passati tutti, e ognuno ha fatto quello che ha potuto: chi poco e chi tanto. Però è vero che, in quel momento lì, al massimo puoi stare a guardare. Io non ho avuto neanche quel coraggio.

– Tua moglie non sarà stata contenta – ha osservato Aldo – ma al-meno non le avrai complicato la vita. Comunque, tornando a noi, a me è capitata una sera, verso le dieci, una chiamata da Castellet-to. Sono arrivato in tre minuti e mi sono trovato la coppietta, con la valigia e tutto, già bella pronta sul portone di casa. Li ho portati al Galliera e me ne sono venuto via. Neanche mezz’ora e mi chia-mano di nuovo: anche questa era una che doveva partorire, ed era la prima volta, quindi il marito era agitatissimo e lei aveva il suo bel daffare a dirgli di stare tranquillo. Poi ho fatto una corsa a prendere uno in abbonamento all’aeroporto e ho cominciato a rilassarmi. Treni e aerei per un po’ non ce n’erano più e di viaggi all’ospedale ne avevo già fatti due, quindi le statistiche dicevano che per un po’ potevo quietare. Mi sarò anche appisolato in mac-china. Alle due, ti arriva una squillata di telefono da bucare le orecchie. Un’altra chiamata per il Galliera, e fanno tre. Insomma, per farla corta: prima che venisse mattina ne ho fatte ancora altre due, e all’ultima gli si sono anche rotte le acque in macchina e lo so che non è bello lamentarsi, ma mi ha anche sporcato tutto il sedile posteriore. Cinque partorienti in una notte sono un record che nessuno ha mai uguagliato: se dovesse succedere più spesso forse vorrebbe dire che si sarebbe risolto il problema del calo de-mografico della popolazione genovese…

– E Calimero? – ho chiesto io, girandomi verso Gianni.

– Ah, questa è un’altra storia – dice lui, e intanto tira fuori la siga-retta elettronica e si prepara una bella spipazzata ad acqua. – E’ la storia di un salvataggio fatto senza tanta tecnologia, ma con una bella dose di fegato e di tempismo. C’era questo Calimero, che era proprio come quello della pubblicità, perché piccolo era piccolo e nero lo era senz’altro. Meno gioioso del pulcino, anzi piuttosto di poche parole e anche con un fisico più asciutto. Credo che fosse siciliano, e comunque sicuro che era un terùn. Va beh, questo Ca-limero un giorno si è visto entrare in auto, su dal Lagaccio, una donna scarmigliata, con in braccio un bambino cianotico: “Ci porti all’ospedale, presto, che il piccolo ha ingoiato un confetto che gli è andato per traverso e non gli va più su né giù. Corra, che mi muore…”.

– E lui ha corso?

– Lui è sceso dal taxi, veloce come una faina, e ha aperto la portie-ra di dietro: a guardare il bambino, ha detto poi in poche parole, nel suo solito modo scontroso e asciutto, lo aveva capito subito che quello all’ospedale non ci arrivava, così ha deciso, lì sui due piedi, di giocare il tutto per tutto. Lo ha strappato di mano alla madre, che non aveva capito niente e gridava come un’ossessa; lo ha preso per i piedi e lo ha tenuto appeso con la mano destra, a testa in giù. Poi gli ha dato un pattone nella schiena che lo hanno sentito fin su a Granarolo. Il confetto è saltato fuori subito, e il bambino si è messo a piangere.

– E a lui glie l’hanno regalata, una botte di vino?

– Lui ci ha rimesso la corsa, ma magari, quando il bambino diventa grande abbastanza, può darsi che si ricordi di portargliela lui, al-meno una bottiglia…

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